Leggo con molta apprensione quanto scrive Santo Di Nuovo. I toni utilizzati per descrivere la situazione delle università italiane, già abbastanza drammatici se usati da chiunque di noi, assumono una coloritura particolare se usati da un importante psicologo.

Siamo ormai al punto di dovere abbandonare ogni speranza nelle capacità di autonomo recupero da parte del sistema universitario e siamo costretti a ricorrere all’intervento esterno, di autorità che hanno poteri di correzione più incisivi di quelli esercitabili (come risposta immunitaria) dalla stessa comunità universitaria?

Debbo dire che, purtroppo, anch’io immagino che siamo arrivati ad un pericoloso livello di incapacità di reazione e autocorrezione del sistema universitario.

Resto impressionato dall’assordante silenzio delle organizzazioni sindacali tradizionali (delle quali ho avuto l’onore di far parte) e dalla loro perdita di capacità di intervento nei processi di programmazione.

Purtroppo siamo passati da modelli di gestione consociativa dei singoli atenei, nei quali organizzazioni più o meno rappresentative concorrevano all’applicazione (domestica) di normative contrattuali e di promozioni generalizzate delle quali scontiamo ancora gli effetti, a modelli autocratici nei quali labili legittimazioni consentono di governare imponenti e delicati sistemi. L’illusione delle legittimazioni merito(?)cratiche di importanti organismi di sistema ha sostituito forme di legittimazione elettive, espressione della responsabilità della comunità, con forme di incardinamento più o meno casuale (o peggio politico).

Non penso solo all’ANVUR, penso anche alla formazione delle commissioni di abilitazione, agli Organi di autovalutazione dei singoli atenei e così via. Mi chiedo se siamo veramente convinti che un sistema di formazione delle commissioni di abilitazione possa esprimere un responsabile indirizzo culturale grazie alla miscela fra legittimazione meritocratica e sorteggio.

È come dire che i precedenti sistemi basati sulla legittimazione elettorale (più o meno corretta dai sorteggi) fossero inadeguati ad esprimere una valutazione responsabile dell’idoneità a far parte di una commissione: i professori universitari non sarebbero in grado di scegliere chi è più capace di fare valutazioni. In realtà, quando si formulano giudizi di valutazione della maturità scientifica degli studiosi si compie un’operazione molto più complessa e articolata del semplice accertamento del merito. Si deve esercitare una valutazione dell’idoneità alle funzioni di professore universitario, cioè di componente di una comunità caratterizzata dalla responsabilità di governo dell’autonomia e, proprio per questo, garante della libertà della scienza.

Si potrà dire che c’è il rischio di trovarsi nella terra fluttuante di Laputa, abitata da studiosi di musica e matematica del tutto inetti sul piano pratico (con tutto il rispetto per musicologi e matematici, l’esempio è di Jonathan Swift). Certo non si elimina il rischio se a giudicare sono altri abitanti di Laputa, scelti solo perché più bravi in musica o matematica. Il rischio si elimina se si attribuisce alla Comunità nazionale, alle Istituzioni, al mercato il compito di apprezzare (o meno) la ricerca e la didattica. Il rischio non si elimina se la valutazione è affidata solo a organismi pubblici che assorbono pure il compito di governare distribuzione delle risorse, reclutamento, esercizio dell’autonomia didattica e di ricerca. È ancora peggio se la valutazione del merito dipende da scelte editoriali effettuate sulla base di procedure non regolamentate.

Il terribile guado nel quale ci siamo impantanati, misto di centralismo, di autonomie incompiute, di riferimenti impropri al mercato, porterà alla schizofrenia grave del sistema e all’adozione di soluzioni rabberciate. Se, ad esempio, tentassimo di arginare la migrazione degli studenti con politiche lassiste, produrremmo effetti ancor più devastanti. Se attribuissimo a poteri pubblici il ruolo dialettico che è proprio della società e delle sue articolazioni, potremmo ritrovarci in un sistema comparabile a quelli che la storia ha cancellato.

Santo Di Nuovo rilancia l’idea (che avevo proposto anch’io) di aprire una stagione di confronto giudiziario sui temi dell’università. In realtà la stagione è già aperta da tempo, con esiti contrastanti.

I contenziosi sugli statuti si sono fermati, nella maggior parte dei casi, alle decisioni cautelari con acquiescenza delle università ai tentativi (andati a buon fine) ministeriali di imporre una lettura centralistica (in questo senso gentiliana) dell’autonomia come mero decentramento; in altri casi, invece, si è pervenuti alle decisioni di merito con affermazioni (ancora una volta gentiliane) del primato del ministero sull’autonomia delle università.

La fase del controllo dell’esercizio delle funzioni abilitative (a prescindere dalla rilevanza di errori di singole commissioni) ha esplicitato le incongruenze della commistione tra sistemi di misurazione e sistemi di valutazione. Si è anche esplicitata una grave carenza nell’elaborazione delle norme, sfociata nell’annullamento del Regolamento per la parte che individua la maggioranza abilitativa dei 4/5 dei commissari. Siamo ancora in attesa di sapere quale rimedio intenda adottare il Ministero per rendere giustizia a tutti coloro che sono stati dichiarati inabilitati in forza di una norma illegittima.

Il Regolamento che verrà non sembra che potrà risolvere il grave problema della commistione fra misurazione (con metri improbabili) e valutazione. Sembra, se abbiamo capito bene dalle notizie che circolano, che si verrà ad istituire un ‘filtro’ all’accesso alle abilitazioni di incerta legittimità.

Altre tematiche sfuggono alle letture correnti. Ci si potrebbe chiedere fino a che punto i bilanci universitari esprimono la drammaticità delle situazioni dei singoli atenei. Non sappiamo quante università potrebbero essere costrette a portare i libri in tribunale (si fa per dire) se si applicassero le norme sulla valorizzazione del demanio (leggi pagare gli affitti allo Stato) contenute in una legge finanziaria quasi dimenticata (ma vigente).

La via giudiziaria non è stata pensata per le correzioni di sistema, ma per la correzione delle singole deviazioni. Il problema drammatico è costituito dall’accumulo di tante singole deviazioni da costituire un sistema deviato. Quest’ultima considerazione, tuttavia, non impedisce di immaginare che un sistema di ricorsi diffusi alla giustizia non sia, alla fine, l’unica possibile (per quanto virulenta) reazione di difesa immunitaria.

Se i singoli presìdi di tutela dell’integrità del sistema universitario non sono in grado di reagire, sarà necessario adottare terapie di intervento esterno. Alla debolezza dei presìdi dovrà sostituirsi una capacità di aggregazione e di rappresentanza degli interessi e dei valori del sistema universitario. Santo Di Nuovo richiama organismi di autodifesa giudiziaria collettiva. Immagino che l’esperienza delle abilitazioni abbia fatto crescere una diffusa competenza in materia di valutazione. Penso, tuttavia, che le università siano ancora le sedi più legittimate, in tutti i sensi, a promuovere azioni di tutela nei confronti di provvedimenti che ledono gli interessi legittimi di ciascuna istituzione, ancor prima che altrettanto legittimi interessi individuali. Mi rendo conto che esistono diversità di vedute fra le varie università. Poiché tali diversità di vedute discendono da diversità di interessi è necessario che ciascuna istituzione, da sola o insieme a quelle che subiscono le medesime ingiustizie, si attivi nelle sedi e nei modi più opportuni, nell’esercizio della propria inderogabile responsabilità.

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3 Commenti

  1. Come è risaputo il sistema giudiziario italiano è pietoso: non funziona. Quindi non serve a nulla. L’unica cosa che servirebbe è il blocco della didattica Sine die, ma è ancora presto. Quando il sistema sarà degenerato a tal punto da bloccarsi allora esploderà. Basta aspettare . Forse già a settembre.

  2. Chiamato in causa da un importante giurista come ‘importante psicologo’ (per fortuna definizione non soggetta a valutazione ANVUR), replico accentuando la valenza psicologica del mio precedente intervento.
    Il punto di partenza è l’amarezza e sfiducia generalizzate e impotenti che attraversano la base dell’università italiana, e che constato ogni giorno dovendo dirigere un pezzo – seppur limitato come un dipartimento – del sistema.
    Lo sciopero che manda in vacanza studenti (e docenti) per almeno due settimane non mi pare una soluzione, mentre lo sciopero bianco era una delle soluzioni che proponevo, purchè sia generalizzata, altrimenti anche questa serve a poco.
    Il ricorso auto-difensivo alla giustizia amministrativa (per quanto sia consapevole delle incertezze del sistema giudiziario) mi pare attualmente l’unico antidoto che può impegnare ATTIVAMENTE tutte le fasce dei lavoratori e degli utenti dell’università contro l’in-giustizia del sistema, che (paranoicamente? o realisticamente?) reputo non casuale o solo esito di inefficienza, bensì voluta ad arte da chi lo sovrintende.
    Tutto il resto sarebbe attesa passiva dell’esplosione – anzi, implosione – finale: che però farebbe saltare anche le speranze di intere generazioni di studenti e docenti precari.

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