La maggior parte dei nuovi iscritti ha bisogno di frequentare i Corsi di recupero OFA (Obblighi Formativi Aggiuntivi). Tali Corsi consisteranno in una serie di lezioni tenute in tempi assai stretti su argomenti quali: la lingua italiana, le lingue straniere, le lingue classiche, la matematica (in altri Dipartimenti). I Corsi Zero saranno «indispensabili per superare la prova di verifica che, a conclusione del corso, permetterà di soddisfare gli OFA entro il primo anno di corso. Riempire le menti di centinaia di studenti con qualche esercitazione e con alcune nozioni di base -che avrebbero dovuto assimilare a scuola-, ritenendo che in tal modo questi studenti saranno in grado di seguire corsi di Ingegneria, Filologia, Lingue straniere, Filosofia, significa cadere in pieno nella sindrome didatticista del «successo formativo obbligatorio», vale a dire quanto di più distante ci sia dalla concreta realtà dell’apprendimento, che è fatta di tempi lunghi, di talento naturale, di dialogo maieutico tra maestro e allievo.
Una delle più gravi illusioni didattiche prodotte dal behaviorismo e da altre correnti della pedagogia contemporanea è la convinzione che sia sufficiente istituire corsi, organizzare lezioni, svolgere azioni di «recupero» per colmare vuoti di conoscenza e dare alle persone le competenze che non hanno acquisito durante molti anni di studio e di frequenza delle scuole.
Esempio di una tale speranza -tanto patetica quanto pericolosa- sono i cosiddetti Corsi Zero organizzati da diversi Atenei italiani (compreso il mio) anche in seguito ai risultati dei test di ingresso ai vari Corsi di Laurea. Test che nel mio Dipartimento hanno avuto risultati drammatici. La maggior parte dei nuovi iscritti, infatti, ha bisogno di frequentare i Corsi di recupero OFA (Obblighi Formativi Aggiuntivi). Tali Corsi consisteranno in una serie di lezioni tenute in tempi assai stretti su argomenti quali: la lingua italiana, le lingue straniere, le lingue classiche, la matematica (in altri Dipartimenti). I Corsi Zero in tali discipline saranno «indispensabili per superare la prova di verifica che, a conclusione del corso, permetterà di soddisfare gli OFA entro il primo anno di corso, come previsto dal Regolamento Didattico di Ateneo (art. 8 comma 1 e 2 del RDA -D.R. n.2634 del 6.08.2015)».
Riempire le menti di centinaia di studenti con qualche esercitazione e con alcune nozioni di base -che avrebbero dovuto assimilare a scuola-, ritenendo che in tal modo questi studenti saranno in grado di seguire corsi di Ingegneria, Filologia, Lingue straniere, Filosofia, significa cadere in pieno nella sindrome didatticista del «successo formativo obbligatorio», vale a dire quanto di più distante ci sia dalla concreta realtà dell’apprendimento, che è fatta di tempi lunghi, di talento naturale, di dialogo maieutico tra maestro e allievo.
Il tipico pragmatismo statunitense induce invece a credere -ché di una vera e propria fede si tratta- che basti organizzare, fare, recuperare, affinché accada il miracolo. In effetti è un miracolo quello necessario a riempire gli abissi di ignoranza con i quali troppi giovani escono dalle scuole -chiaramente ridotte a luoghi di intrattenimento e di socializzazione- e che si esprimono anche nelle risposte che sto sentendo in questi giorni di esami delle discipline che insegno. Ho ascoltato studenti che non conoscono la storia del Novecento, che non sanno in quale secolo venne scoperta l’America, che sono privi di qualunque anche minimo rigore logico, che ignorano o confondono in modo drammatico i significati delle parole fondamentali della filosofia, della storia, della letteratura.
Di fronte a tanto scempio organizziamo Corsi Zero per «soddisfare gli OFA» e viviamo sereni.
E quindi non ci resta che bocciare?
Esatto. Se torniamo a bocciare, forse i titoli di studio universitari torneranno a rappresentare un ascensore sociale per i figli dei ceti meno abbienti. Mentre ora servono solo a mettere un fiorellino all’occhiello dei figli dei ricchi, che tanto un lavoro lo trovano lo stesso e possono permettersi di studiare le lingue viaggiando, e imparare le abilità relazionali nei salotti buoni.
Sono ampiamente d’accordo: è la situazione che affrontiamo tutti i giorni. Il problema è che queste “lacune” sono persistenti. Le ritroviamo fino alla laurea….ma d’altra parte così si è voluto (ormai qualche anno fa) riformare la scuola e l’Università, e questo è il risultato ! La riforma Berlinguer insegna….
Cordialmente
Operazioni di Finto Apprendimento
Potrei anche essere d’accordo sui “corsi zero”. Non invece sulla cattiva abitudine di scaricare il problema sulla scuola, “ridotta a luogo di intrattenimento e socializzazione”.
L’ennesima voce forse inconsapevole nel trito coro dei denigratori del sistema di istruzione pubblica italiano, abilmente orchestato da furbi maestri che ne traggono alimento e supporto non solo per una politica dell’istruzione escludente e classista ma soprattutto per la demolizione del sistema di istruzione pubblico italiano.
L’università è inutile, andate a fare le pizze (e chiudiamo le univerisità). La scuola è inutile, restatevene a letto (e chiudiamo le scuole). La tragedia è che la scuola, per stare dietro alla criminale ideologia neocon, diventa davvero inutile e anzi dannosa: inutilmente selettiva, dannosamente competitiva.
Dispiace soprattutto che Roars si presti a questo gioco.
Giovanni Figà-Talamanca
In effetti, se abbiamo la più bassa percentuale di laureati in Europa, la soluzione non può essere la regressione a un’università ancora più elitaria, quasi un ritorno a decenni fa (a questo proposito è interessante notare come la “riforma” Gelmini abbia funzionato da “macchina del tempo”: le statistiche del finanziamento e delle immatricolazioni sono regredite ai valori di dieci e più anni prima). Piuttosto, bisogna ragionare in modo realistico e capire come prendersi carico dei ritardi di formazione. Il che può essere fatto migliorando la preparazione di chi esce dalla scuola secondaria, tenendo però conto che, come ben mostrato da Gianfranco Viesti, le difficoltà presenti rispecchiano ritardi storici. Famiglie meno istruite e difficoltà sociali costituiscono un freno che non si supera miracolisticamente ma che richiede interventi su più dimensioni (mentre invece va di moda cercare qualche capro espiatorio che esima dalla difficoltà di studiare ed elaborare soluzioni realistiche). E anche l’università deve fare la sua parte, colmando (ove possibile) quelle lacune che rendono impossibile proseguire gli studi oppure diversificando l’offerta con percorsi utili ma più abbordabili (io continuo a rimpiangere l’esperienza dei diplomi universitari che, nel caso dell’ingegneria, stavano dando buoni frutti, prima di essere chiusi dall’oggi al domani). Rimane il punto sollevato dalla lettera, ovvero che non tutte le lacune sono colmabili e che è giusto vigilare contro interventi di facciata che lavano la coscienza (e i rapporti di riesame) ma non rispondono ai problemi reali.
Mi scuso se ho dato l’impressione di “denigrare l’istruzione pubblica italiana”. In realtà non c’è nulla nel mio testo che sia critico nei confronti della scuola e soprattutto dei suoi docenti, i quali nella loro grande maggioranza sono gli unici a evitare che la scuola diventi -per l’appunto- un luogo di semplice intrattenimento. Il mio attacco è rivolto ai decisori politici (e ai loro consiglieri tra i pedagogisti) e alle scellerate strategie con le quali da anni stanno distruggendo scuola e università.
Ho insegnato nei Licei per 18 anni e quindi conosco molto bene quell’ambiente e i colleghi -alcuni eccellenti- che vi lavorano. Ogni volta che sono invitato ad andare a parlare nelle scuole lo faccio con gioia.
La scuola e l’università -insieme- sono vittime di politiche economiche e formative volte a distruggere ogni barlume di consapevolezza critica e di giustizia sociale.
@Alberto: “In realtà non c’è nulla nel mio testo che sia critico nei confronti della scuola e soprattutto dei suoi docenti”
In verità la critica dell’autore alla scuola italiana – non la chiamerei denigrazione, se ritiene che le cose stiano così ha tutto il diritto di criticare – è evidente e pesantissima: se vi sono “studenti che non conoscono la storia del Novecento, che non sanno in quale secolo venne scoperta l’America, che sono privi di qualunque anche minimo rigore logico”, etc, ci sono due possibilità:
1) gli studenti sono capre;
2) la scuola è di bassissima qualità.
E nell’articolo non mi sembra che si sostenga la prima tesi, dunque non capisco la marcia indietro: se si vuole dire che la scuola italiana fa schifo, lo si dica chiaramente. È una posizione lecita!
Non so che scuole frequenti l’autore ma non mi risulta affatto che esse siano “chiaramente ridotte a luoghi di intrattenimento e di socializzazione”. Affermazioni straordinarie, come queste, richiedono prove straordinarie.
Molto tempo prezioso a scuola, come in università, si consuma in lezioni interminabili, a volte inconcludenti, alle quali un po’ tutti onestamente cediamo. E’ possibile tranquillamente ossificare una lezione di un’ora e mezza in mezz’ora. Una alternativa potrebbe essere nella scuola la cosiddetta “classe capovolta” dove le lezioni vengono registrate e trasmesse online. Gli incontri si limiterebbero ad esercitazioni e chiarimenti sul programma di studi, oltre che ad attività di gruppo. avevo la mia bambina a tempo pieno nelle elementari che entrava a scuola alle 8,30 e usciva alle 16,30, non contente le maestre appioppavano anche compiti a casa. Il concetto di classe capovolta potrebbe essere steso tranquillamente all’università, i Moocs (opportunamente riveduti)possono essere un buon punto di riferimento. Ma in Italia di Moocs che io sappia si è visto pochissimo.
A mio avviso non è una buona idea stabilire che l’Obbligo Formativo Aggiuntivo, attribuito a chi non supera la prova iniziale, si debba soddisfare superando un apposito esame fatto svolgere alla fine del ‘ ‘ corso zero’’.
Mi sembra più efficace una seconda soluzione, adottata ad esempio a Bologna, dove, per soddisfare l’obbligo formativo aggiuntivo, è sufficiente superare uno o più esami, preventivamente indicati, o acquisire un determinato numero minimo di crediti entro il primo anno (nello spirito di ‘the proof of the pudding is in the eating’).
Un vistoso difetto della prima soluzione (dove l’obbligo formativo aggiuntivo viene soddisfato superando un apposito esame, fatto svolgere alla fine del ‘corso zero’) è che esso attribuisce alla prova iniziale un valore dirimente, che a mio avviso raramente può avere (sia perché ci sono immancabilmente falsi positivi e falsi negativi, sia perché la storia insegna che i percorsi culturali sono e devono essere altamente individuali, e non possono essere ingabbiati più di tanto). In altre parole, la prima soluzione inserisce subito una ‘Y’ nel percorso culturale degli studenti, che a mio avviso è poco utile, in quanto tale percorso deve essere più un grafo che un albero.
Un altro difetto della prima soluzione è che essa potrebbe poi in pratica facilmente scadere in una finzione.
La seconda soluzione sembra invece avere un effetto benefico, perché in prospettiva spinge gli studenti a prepararsi meglio, e non appesantisce il loro curriculum con un ulteriore esame. Infatti, mi sembra che, se tutto questo sistema deve avere un effetto benefico, esso dovrebbe in un certo modo essere di ‘retroazione’, cioè dovrebbe spingere gli studenti a prepararsi meglio per lo specifico corso di laurea che hanno scelto, ma non dovrebbe avere l’ambizione di installare un meccanismo di selezione aggiuntivo a quello degli esami. Questa seconda soluzione consente a chi insegna i corsi del primo anno di presupporre come acquisite certe conoscenze di base. Le lacune possono essere colmate nel ‘corso zero’. Ma fissare un esame alla fine del ‘corso zero’ mi sembra una cattiva idea.
Concordo totalmente con Biuso. Quanto al selettivismo, nelle ex-facoltà umanistiche è un concetto molto relativo. Siccome una classe politica di imbecilli ci ha convinto di essere inutili, cerchiamo di attrarre studenti privi di requisiti minimi e di portarli avanti a tutti i costi. Il rettore ci invita esplicitamente a promuoverli e in fretta, sennò ci chiudono, ci puniscono, ci tagliano etc.
Ma talvolta ho l’impressione che abbiamo già chiuso.
Secondo me qui si stanno confondendo due livelli. Da una parte c’è la (forse presunta) “ignoranza” degli studenti in entrata, ma dall’altra c’è il problema della disomogeneità della platea studentesca. Io insegno un corso di metodi matematici della fisica al terzo anno della luarea in fisica. Se dovessi scoprire che tutti i miei studenti sanno le tabelline solo fino al sei, saprei da dove iniziare il programma: la tabellina del sette. Certo, non riuscirei ad arrivare a fare gli operatori sugli spazi di Hilbert, e questo creerebbe un problema al docente di meccanica quantistica. Ma sarebbe inutile spiegare cose incomprensibili. Diverso il caso in cui mezza classe non sa la tabellina del sette, e l’altra mezza conosce la teoria delle algebre C*. Da dove comincio?
Al primo anno arriva una platea molto diversificata, con studenti proveniente da scuole superiori immerse in realtà sociali diverse, da famiglie diverse, con conoscenze diverse, e spesso anche con metodologie di studio (o assenza di esso) molto diverse. Talvolta arrivano anche stranieri. Questo è il problema che i “corsi zero” vorrebbe affrontare. Dire che questi sono inutili sarà anche vero, ma allora cerchiamo di capire le alternative. Fausto di Biase diceva di una esperienza a Bologna, sarebbe interessante capire se ci sono altre soluzioni.
Che le università si facciano carico di riprendere le lacune degli studenti lo trovo utile al fine di incrementare il bacino di studenti e dare possibilità a tutti di seguire un percorso di studi Universitario.
Concordo però che è assurdo che si possa pensare che lacune accumulate in 13 anni di studi possano essere colmate da corsi “zero” organizzati in un mese o in parallelo con i normali corsi universitari.
Gli studenti ritenuti non idonei andrebbero iscritti ad un anno di “fondamenti” e immessi nei corsi regolari solo al superamento di questo anno “zero”.
Ovviamente bisognerebbe trovare le risorse per fare dei corsi extra (e qui casca l'”asino”).
Detto questo, ho sempre trovato assurdo che gli studenti debbano affrontare due prove (maturità e ammissione all’università) tese a verificare le loro conoscenze sulle stesse materie.
Conosco studenti che hanno preso poco seriamente le prove universitarie preferendo le vacanze alla preparazione ed altri che viceversa hanno focalizzato i propri studi sulle prove di ammissione (medicina) e lasciato in secondo piano la maturità.
E’ sicuramente un metodo inefficiente che andrebbe riformato alla fine la scuola superiore e l’università dipendono dallo stesso ministero… che provino a parlarsi e risolvere questi problemi!
[…] [Corsi sotto(Zero) è stato pubblicato anche su Roars] […]