Nel momento in cui si nota che, nella stragrande maggioranza dei casi, il colore rosa è quello più diffuso per le bambine, così come la bambola Barbie il loro giocattolo preferito, non per ciò s’intende lanciare un’accusa morale nei confronti dei genitori. Si constata semplicemente – nonostante gli strappi e le rotture suscitate dai movimenti femministe – il perdurare dell’azione del tutto inconsapevole degli stereotipi di genere (cui immagino cedano anche le famiglie più “progressiste”, preoccupate giustamente dalla necessità dell’integrazione delle loro figlie nel gruppo dei pari). Allo stesso modo, affermare che ciò che la stragrande maggioranza dei docenti – qui, in Italia – considera la “didattica normale”, contribuisce a riprodurre una gerarchia tra studenti “buoni” e studenti “cattivi” che altro non è – statisticamente – se non una gerarchia di carattere sociale, non implica assolutamente quell’intenzione che Giovanni Carosotti mi imputa, di pronunciare un giudizio negativo sulla classe docente. Anche perché dovrei metterci me stesso, visto che ciò che ho chiamato, con la lingua dell’ottocentesco Jaccotot, l’”abbrutimento” dell’apprendimento meccanico e mnemonico, lo constato innanzitutto tra molti dei  miei stessi studenti.

   Alla convinzione che la “lezione” possa costituire un rituale mediante cui viene ribadita la superiorità di una determinata cultura, e della posizione di chi la detiene, nei confronti di chi è distanziato da essa, non ci sarei mai arrivato senza la lettura assidua di Bourdieu e, in particolare, di una indagine condotta nel 1966, insieme a René Passeron a a Monique de S. Martin alla facoltà di Lettere, nella quale si concludeva che il contenuto di informazione realmente trasmesso nei corsi universitari era estremamente povero, e che il risultato effettivo dell’insegnamento consisteva nell’indurre gli studenti a scimmiottare il linguaggio del professore, a costruirsi una retorica buona per ogni situazione d’esame.  La lente teorica di Bourdieu, e, soprattutto del citato Rapport pédagogique et communication mi ha indotto a osservare determinati fenomeni dell’interazione d’aula come reazioni difensive ad una relazione di subordinazione che non è per nulla il prodotto intenzionale della cattiva coscienza dei docenti, bensì un’espressione necessaria di ciò che Bourdieu stesso chiama il “campo” e l’”habitus” dominanti. Ciò che in una istituzione scolastica élitaria, come poteva essere l’università di Bourdieu o la scuola di Lettera a una professoressa, esigeva di ottemperare, anche senza averne i mezzi, ai requisiti del discorso cattedratico, nella scuola di massa, che si è effettivamente democratizzata ma solo per quel che riguarda l’accesso formale alle istituzioni formative, (e sulla quale senza dubbio pesano gli effetti dell’inflazione del valore dei titoli di studio), le reazioni di quel pubblico che, per origini sociali, si trova distante dalla cultura professorale, si manifesta mediante ciò che un altro sociologo, Foley, chiama i “play out games” e Goffmann, in Asylums, gli “adattamenti secondari”: assenteismo, ritardi e assenze “strategiche”, “cheating”, o anche “lei rimprovera me ma in classe parlano tutti!”, ecc.

   Ancora prima di porsi il problema delle “metodologie didattiche”, il punto sarebbe quello di riconoscere finalmente che fenomeni di disaffezione e anomia che colpiscono la scuola non sono il prodotto di fattori esogeni – come la Tv e i cellulari o l’educazione lassista delle famiglie – ma sono (anche) il risultato dell’azione della scuola stessa. Dire questo è forse un attacco alla classe docente? Crederlo significherebbe negare la stessa legittimità delle critica delle istituzioni, poiché un’istituzione non è una cosa fisica, ma è costituita soprattutto dalle sue relazioni interne e dagli agenti che le animano. Noi docenti siamo la scuola, e il fatto è che, laddove vediamo passività, bugie, manipolazione, aggressività, incomunicabilità, negli allievi, siamo portati – quasi sempre – ad attribuirne la causa a fattori di ordine psicologico o morale nei quali noi stessi, o la scuola in genere, non avremmo responsabilità alcuna. E ciò accade perché non disponiamo delle “categorie”, del linguaggio per dare un nome ai paradossi delle interazioni scolastiche. Siamo noi stessi – per dirla con Bourdieu – vittime di un processo di “violenza simbolica” che, per difendere la legittimità del nostro ruolo istituzionale, ci impone di travisare la realtà.  Ma di qui seguono tutta una serie di altri paradossi: la preside mette sotto accusa i docenti ma poi, di fronte ai genitori difende quegli stessi docenti, e se il giorno prima ha tuonato contro l’insensibilità di un certo insegnante poi, in consiglio di classe o in collegio docenti, sceglie la via della mediazione, o altri adattamenti e compromessi di quel tipo. La scuola è piena zeppa di ciò che Bateson ha chiamato “doppi vincoli”, situazioni irrisolte la cui sola valvola di sfogo è il calo delle bocciature, un calo della selezione che in realtà conduce a una selezione differita, ad una selezione altrettanto spietata che in passato ma affidata non più all’istituzione ma alle forze del mercato.

   La didattica d’aula sta all’interno di questo gioco di relazioni conflittuali e paradossali, che ho potuto appena abbozzare. In ciò che storicamente è stato definito “attivismo pedagogico” era senza dubbio presente l’istanza di rompere con una relazione pedagogica che si pone a presidio dell’ordine costituito e agisce in favore della riproduzione delle diseguaglianze. Esso, oggi, costituisce – è innegabile – per così dire una “corrente” della “pedagogia delle competenze”. Molti di coloro che ne portano avanti le istanze – penso a Gianni Marconato, Antonio Vigilante, Carlo Corsini, che sono stati molto importanti per consentirmi di elaborare un punto di vista sul problema – amerebbero essere collocati in altro modo, per distanziarsi dal discorso e dalle pratiche istituzionali dominanti. Tuttavia, se la nozione di “competenze” s’impone all’interno di un campo disciplinare, è una perdita di tempo cercare denominazioni alternative. Meglio accettare il fatto (ed è ciò che intendevo dire nell’articolo precedente, L’ambiguo impero delle competenze) che quello delle “competenze” sia un campo “conteso”, nel quale sono presenti sia i massimi fautori di una visione mercantile e privatistica dell’educazione sia coloro che pensano che difendere la scuola pubblica significhi stare dalla parte degli “ultimi”.

   Se l’introduzione di innovazioni nel campo della didattica volesse dire eliminare d’autorità il pluralismo metodologico dei docenti non solo sarebbe inaccettabile, ma non funzionerebbe. Le esperienze che fanno da riferimento storico dell’innovazione pedagogica (Montessori, Freinet, don Milani, ecc.) sono nate da metodologie e pratiche attuate da insegnanti, in aula. L’unico esempio di sistema istituzionale, a mia conoscenza, fondato sull’”attivismo pedagogico”, la Finlandia, si è venuto costituendo sull’alleanza tra stato, enti locali, facoltà di pedagogia e insegnanti.

   Infine, ringraziando Giovanni Carosotti per le sue argomentate critiche, debbo dire che, personalmente, non ho nessuna metodologia risolutiva da proporre in campo didattico. Preferisco un prudente procedere per tentativi ed errori. Anzi, se penso a me stesso, direi che mi riconosco abbastanza nella descrizione che Carosotti fa della “lezione”  come “un continuo scambio dialogico con gli alunni sui contenuti discussi, attraverso una sollecitazione continua” e, lavorando come tutor un paio di volte con colleghi che svolgevano l’anno di prova, ho notato che noi “insegnanti alternativi” di storia e filosofia tutto sommato agiamo all’interno di quella cornice di riferimento. Credo che potrei anche accontentarmi della grande soddisfazione che mi danno studenti e studentesse che già possiedono nel loro “habitus” la curiosità intellettuale e la “sete di sapere”. Ma il riferimento di una ricerca personale, come docente, credo debbano essere gli altri, quelli che si annoiano. O che hanno talmente introiettato l’idea che ottenere dei risultati, a scuola, significhi memorizzare il più contenuti possibile sui testi che del “continuo scambio dialogico” non sanno che farsene.

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