Il Governo Monti e il Partito Democratico ritengono che le liberalizzazioni rappresentino un passo fondamentale per rilanciare la crescita del nostro Paese. Questa convinzione nasce dall’idea che in molti settori economici il grado di concorrenza sia piuttosto basso, come si può leggere nel documento sulle misure di liberalizzazione recentemente presentato dal Governo Monti.
“In Italia, i settori che producono servizi al riparo dalla concorrenza internazionale sono, sostanzialmente, tutti i settori diversi dal manifatturiero (commercio, trasporti, credito e assicurazioni, costruzioni, elettricità, gas, acqua, hotel e ristoranti, professioni) e rappresentano più del 50 per cento del valore aggiunto complessivo. In questi settori il grado di concorrenza, sulla base di confronti tra paesi OCSE, è relativamente basso. Vi sono, infatti, barriere all’entrata, regolamentazioni sui prezzi e/o limitazioni alle forme d’impresa che garantiscono alle imprese già presenti sul mercato un potere che permette loro di applicare margini di profitto molto elevati rispetto ai costi”.
Con le liberalizzazioni si intende far aumentare il numero di operatori sul mercato e quindi il grado di concorrenza. La maggiore concorrenza avrebbe l’effetto di esercitare una pressione verso il basso sui prezzi e potrebbe stimolare le attività di innovazione e gli investimenti delle imprese. Però, ci si dimentica di ricordare che nei settori del credito, delle assicurazioni e dell’energia esiste una tendenza verso la concentrazione delle imprese che si riducono di numero e in questo modo accrescono il loro potere di mercato, come ci insegna la teoria dell’oligopolio del 1956 di Paolo Sylos Labini1. In più, esistono intrecci azionari che portano le grandi imprese dell’energia, del credito e del settore assicurativo ad essere legate a filo doppio le une alle altre. In questo quadro, i principi fondamentali della concorrenza, come la rivalità e la segretezza delle strategie, vengono clamorosamente a mancare2.
La tendenza verso la concentrazione delle imprese è in atto sia in Italia e in Europa, sia nei mercati bancari e azionari internazionali.
In Italia dopo la concentrazione bancaria degli ultimi anni, è in corso la fusione tra Unipol e Fondiaria-Sai e sta procedendo l’accorpamento delle aziende municipalizzate, mentre a livello internazionale l’ENEL nel 2007 aveva acquisito la società spagnola Endesa e recentemente il colosso energetico francese EDF ha inglobato l’Edison. In Europa la tendenza verso la concentrazione del settore energetico è stata molto sostenuta negli ultimi anni mostrando una continua crescita di aggregazioni e alleanze tra le aziende con un ritmo superiore ai 200 casi nel 2007 e nel 20083.
Nel mercato bancario internazionale, dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500 e determinando una situazione in cui i primi 25 istituti al mondo hanno bilanci cumulati pari al 75% dell’economia globale. Al I° trimestre 2011, cinque società d’affari (J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati.
Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in modo consistente il numero delle società quotate. Ad oggi, le prime 10 società con maggiore capitalizzazione di borsa – pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate – detengono il 41% del valore totale e il 47% dei ricavi. Dunque, i mercati finanziari non sono affatto concorrenziali, ma sono di tipo piramidale con al vertice pochi operatori finanziari in grado di controllare oltre il 65% dei flussi finanziari globali. Alla base della piramide vi sono una miriade di piccoli risparmiatori e operatori finanziari che svolgono una funzione passiva4.
Allora, quando si parla di liberalizzazioni in settori che stanno diventando sempre più concentrati, non si capisce proprio che cosa si intenda dire e che cosa ci si aspetti. Perché noi abbiamo di fronte settori di tipo oligopolistico dove vi sono imprese dominanti price leader e market leader.
Nell’energia, nel credito e nelle assicurazioni le imprese dominanti stabiliscono i prezzi applicando un margine sui costi e possono controllare l’offerta secondo le loro convenienze (per esempio le banche stanno continuando a tenere bloccati presso la Banca Centrale Europea gli ingenti finanziamenti che dovrebbero erogare nell’economia reale). Nel settore finanziario le decisioni di investimento (o disinvestimento) delle grandi società d’affari e delle grandi banche determinano l’andamento di interi mercati. Inoltre, le grandi imprese price leader e market leader influenzano i comportamenti delle altre imprese che tenderanno a seguirne le decisioni secondo un meccanismo imitativo.
Capisco che l’influenza della teoria neoclassica qui in Italia sia molto forte ed è cresciuta in seguito alla crisi del settore a partecipazione statale che è stato travolto da estesi fenomeni di corruzione ed è stato ampiamente privatizzato per ridurre il debito pubblico.
La teoria neoclassica propaganda un mondo virtuale dove vi sarebbero una miriade di produttori che non hanno alcun potere di mercato (la concorrenza perfetta), mentre i consumatori, attraverso le loro scelte, le loro preferenze e la loro utilità, influenzano l’andamento del mercato e determinano l’andamento dei prezzi. Il consumatore rappresenta il centro del sistema e per questo la teoria neoclassica non solo è una teoria economica ma costituisce anche un’ideologia politica in quanto il sistema vagheggiato dai neoclassici e dai liberisti sarebbe il sistema più democratico che può essere raggiunto dalle comunità sociali. Un sistema dove il singolo individuo avrebbe un potere enorme.
Personalmente, sono convinto che nei settori molto concentrati di carattere strategico come il credito e l’energia, accanto alle imprese private dovrebbero coesistere imprese pubbliche, le quali dovrebbero perseguire obiettivi diversi da quelli delle imprese private. Come sappiamo l’obiettivo primario delle imprese private è quello di massimizzare i profitti di breve periodo e distribuire dividendi agli azionisti. Al contrario, le imprese pubbliche, nel rispetto del pareggio di bilancio, dovrebbero avere come obiettivi prioritari quelli di esercitare una spinta verso il basso sui prezzi, svolgendo un ruolo di price-leader, e di massimizzare le spese in ricerca e sviluppo e gli investimenti nell’innovazione. Così le grandi imprese pubbliche potrebbero condizionare gli equilibri tra le grandi imprese private oligopolistiche, equilibri che spesso si basano su patti di pacifica coesistenza e di spartizione del mercato, e potrebbero influenzarne le strategie di investimento e le politiche dei prezzi5.
Se per esempio consideriamo il settore energetico, vediamo che la possibilità di conseguire enormi profitti grazie al potere di mercato in un sistema altamente concentrato con una domanda piuttosto rigida, tende a disincentivare gli investimenti delle grandi imprese private verso l’innovazione e la diversificazione energetica. Le compagnie petrolifere e le imprese elettriche, infatti, hanno una quota di spese in ricerca e sviluppo che generalmente non arriva a toccare l’1% del fatturato, mentre esistono grandi imprese ad alta tecnologia che arrivano ad investire in R&S il 15% del fatturato6. Oggi tra gli obiettivi principali delle imprese energetiche vi sono quelli di acquisire ulteriori quote di mercato attraverso operazioni finanziarie, di distribuire dividendi agli azionisti e di incrementare le stock options per il management. Si tratta di una situazione in cui i profitti prendono la strada della finanza e non quella dell’economia reale.
In conclusione, credo che nel futuro sarà necessario un maggiore intervento dello Stato anche attraverso le grandi imprese pubbliche perché le grandi imprese private che operano nell’energia, nel credito e nelle assicurazioni stanno aumentando il loro potere di mercato, possono controllare i prezzi, sono poco propense a finanziare l’espansione degli investimenti nella ricerca e nell’innovazione e tendono a impiegare quote crescenti dei loro profitti nel settore finanziario. Si tratta di una situazione che dovrà essere cambiata e non saranno certamente queste misure sulle liberalizzazioni a determinare un’inversione di rotta.
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1 Oligopolio e progresso tecnico fu scritto avendo come settore di riferimento l’industria manifatturiera (http://dspace.unitus.it/bitstream/2067/597/1/oligopolio-e-progresso-tecnico.pdf ). Oggi il modello dell’oligopolio si potrebbe applicare al settore energetico, ai settori del credito e delle assicurazioni e persino al settore del rating che è dominato dalle tre sorelle Standard & Poor, Moody’s e Fitch. In particolare, quelle che comunemente sono definite “public utilities”, in realtà sono imprese che in alcuni casi estraggono e in generale comprano, trasformano e vendono sul mercato un prodotto omogeneo – elettricità, olio combustibile, benzina, gas per usi industriali e civili. Per questi motivi le imprese energetiche possono essere considerate analogamente alle imprese della trasformazione industriale che operano in un regime di oligopolio concentrato.
2 L’articolo 36 della manovra economica varata dall’esecutivo Monti secondo cui “è vietato ai titolari di cariche negli organi gestionali , di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti” non risolve il problema degli intrecci azionari e del diritto ad avere cariche in altre imprese concorrenti.
3 Indagine annuale sulle Strategie e le Aggregazioni delle utilities condotta da Agici Finanza d’Impresa in collaborazione con Accenture http://www.accenture.com/it-it/company/newsroom-italy/Pages/consolidamento-italiano-pubblico-utilities-mercato-continua.aspx
4Andrea Fumagalli, Il diritto al default come contropotere finanziario, il Manifesto, 1 settembre 2011, http://www.ilmanifesto.it/archivi/forum-economia/andrea-fumagalli/
5 In Italia lo Stato nomina gli amministratori delegati e la maggioranza relativa del consiglio di amministrazione dell’ENI e dell’ENEL e potrebbe avere un ruolo più attivo per quel che riguarda gli indirizzi sulle politiche dei prezzi, sulle spese in ricerca e sulle decisioni di investimento di queste grandi imprese energetiche. Per quanto riguarda il settore bancario, recentemente è stata costituita la Banca del Mezzogiorno, di proprietà pubblica, che ha il compito di finanziare gli investimenti delle imprese del Mezzogiorno. Certamente, si pone il problema dell’indipendenza delle imprese pubbliche dai partiti politici. Per future banche pubbliche si potrebbe pensare di far nominare i vertici dalla Banca d’Italia, che rappresenta un’istituzione autorevole e indipendente, sulla falsariga di quanto accade nella magistratura che è indipendente dal potere politico.
6 Si veda The EU Industrial R&D Investment Scoreboard: Si veda
– http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/grandi-imprese-e-tecnologie-energetiche-alternative/
– http://www.syloslabini.info/online/wp-content/uploads/2012/03/spese-RS-imprese-italia1.pdf
– http://www.syloslabini.info/online/wp-content/uploads/2011/05/Copia-di-rs-AUTO-2008.pdf
Complimenti, in poche pagine vengono demistificati i soliti luoghi comuni, diffusi anche in una certa sinistra.
Personalmente ritengo che bisognerebbe anche provare a realizzare una vera liberalizzazione di alcuni servizi, ponendo divieti alle concentrazioni e ai cartelli. Anche se, come dimostra l’autore, tali tentativi si sono risolti nel loro esatto contrario. Il paradosso e’ che ogni giorno i feticisti del libero mercato vengono smentiti dalla realta dei fatti, la quale dimostra quanto sia importante l’intervento pubblico per controllare l’animalita’ capitalistica. Noi italiani, come al solito, ci distinguiamo dagli altri. In peggio, ovviamente. Per esempio, abbiamo creato l’anvur…e la legge gelmini che impone scelte di governance tali da consolidare la concentrazione dei poteri negli atenei, ma non certamente di discutere serenamente sulle sorti della ricerca scientifica. E ancora, sono stati avvelenati i pozzi del finanziamento del sistema universitario allo scopo deliberato di sbarazzarsi di un mondo libero e che poteva criticare i salvatori della patria dal pericolo bolscevico. Comunque, e’ nostro dovere andare avanti.
Questo il titolo di un articolo su Repubblica di oggi:
Nasce la lobby di Zuckerberg (Il fondatore di Facebook), „Dobbiamo aiutare giovani e ricerca“.
“……L’uomo dalle mani d’oro, solitamente allergico alla politica, avrebbe cambiato radicalmente idea e deciso di fondare, insieme ad altri illustri colleghi, un’associazione legale/politica con l’obiettivo di far pressioni sulla Casa Bianca e sul Congresso sui temi dell’immigrazione e della scuola. Una vera e propria lobby (dal volto umano) che ha come ragione sociale allevare e accogliere i cervelli più brillanti per il “bene del Paese e dell’economia”, come dice una delle fonti presenti agli incontri preparatori.
….
E ovviamente i soldi non mancano: tanto che si parla di un investimento tra i 2 e i 5 milioni di dollari solo per la fase iniziale.
….” http://www.repubblica.it/esteri/2013/03/24/news/nasce_la_lobby_di_zuckenberg_dobbiamo_aiutare_giovani_e_ricerca-55235373/?ref=HREC2-1
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Da questo alla “open innovation”, nozione introdotta nel libro di Dr. Henry Chesbrough nel 2003 e definita come:
“the use of purposive inflows and outflows of knowledge to ACCELERATE internal innovation, and EXPAND the markets for external use of innovation, respectively. Open innovation is a PARADIGM that assumes that firms can and should use external ideas as well as internal ideas, and internal and external paths to market, as they look to advance their technology.”
Il passo è breve, come è breve il passo verso l’ “open access”. Questi elementi sono da un lato benefici, ma dall´altro dipende molto dall´uso che se ne fa e da chi e come vengono gestiti e comunque da come si regolano questi sistemi aperti. Il rischio nel caso delle aziende multi nazionali (o comunque detentrici di grossi capitali finanziari) è, a mio avviso, che esse utilizzino questi sistemi decidendo, che cosa e come finanziare, decidendo le line di ricerca, inglobando aziende, accentrando e accrescendo il loro potere economico.
Se una multinazionale decide di fare un ranking delle università e dei centri di ricerca più appetibili e vuole influire su decisioni politiche, la domanda che sorge è “PERCHÉ?”. Per bontà? Per amore del sociale? Per salvare la terra e l´uomo dall`auto-distruzione? O per il profitto?
Io sono dell´opinione che “chi controllerà la conoscenza globale” controllerà alla fine il mondo e la guerra che si sta combattendo risiede esattamente in questo. Non solo finanza!
Solo chi ha la forza economica potrà beneficiare della conoscenza globale…….. non i cittadini, almeno che i proventi e benefici non venissero equamente distribuiti sui popoli e le persone che indirettamente finanziano la ricerca e la conoscenza “aperta”! Altrimenti il popolo o i ricercatori finanziano, ma “pochi” (anche se il numero è relativo) usufruiranno dei risultati…. cioè solo i detentori di capitale (denaro).
L´”open access” e “l´open innovation” e il finanziamento diretto d´impresa di scuole e Università, sono di per sé CONCETTI POSITIVI, LODEVOLI e AUSPICABILI, ma dipende se essi vanno a beneficio di tutti o di pochi!
Perchè Barak Obama è a favore dell´”open access”?
https://www.roars.it/la-scienza-trasparente/comment-page-1/#comment-12569
http://www.chefuturo.it/2013/03/obama-appoggia-la-ricerca-open-access-e-in-italia-a-che-punto-siamo/
“Come sostiene il documento dell’amministrazione Obama, “la ricerca scientifica supportata dal governo federale catalizza avanzamenti innovativi che guidano la nostra economia”, dato che un accesso maggiore e più facile ai dati e alle conoscenze scientifiche può fornire maggiori opportunità a chi fa innovazione industriale o a chi vuole utilizzare le informazioni per scopi non limitati dalle mura delle istituzioni scientifiche.“
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Io sinceramente non ci vedo molto chiaro, né ci vedo trasparenza! Credo invece, forse ingenuamente, che nasconda degli effetti pericolosi e controversi, se il tutto non viene gestito con accuratezza e buon senso al di fuori degli schemi liberisti e del mero profitto.
Il sistema – attuale – di accesso chiuso alla pubblicazione scientifica si basa su monopoli legali (copyright ceduto generalmente gratis dagli autori agli editori), oligopoli editoriali (Elsevier), e banche dati oligopolistiche e proprietarie usate anche per la valutazione della ricerca (Wok – l’ex ISI -, Scopus…).
Passare all’open access tempererebbe queste concentrazioni, rendendo accessibili i testi anche ai poveri, e non solo ai ricchi – i quali beneficiano *già* della conoscenza globale…
Certamente, l’accesso aperto non risolve il problema degli oligopoli nell’economia di altri beni, dove va affrontato con altri mezzi. Ma è possibile distinguere fra diverse tipi di beni per applicarvi regimi diversi, come fece, per esempio, Lord Camden nella sentenza del 1774 che sancì, in regime di copyright, il riconoscimento del pubblico dominio: «la scienza e l’istruzione sono per loro natura publici iuris e dovrebbero essere tanto libere e universali quanto l’aria e l’acqua».