C’è un solo elemento di conforto che sopravvive allo scoramento dopo l’incendio della Città della Scienza a Napoli ed è la commozione con cui tanti italiani hanno assistito all’episodio, soffrendone le ustioni insieme ai cittadini napoletani. È probabile, però, che molti di essi non abbiano alcuna idea del luogo in cui si trovava il polo scientifico e non immaginano che ciò possa avere una qualche rilevanza; ma, al contrario, in questo caso la geografia ci indica con lampante evidenza le probabili origini dell’ennesimo disastro napoletano.

Oltre i resti anneriti dei capannoni della Fondazione Idis (creatrice del centro), si estende una vasta area semi-deserta e abbandonata, affacciata sul mare, che condivide il vicinato con la cittadella della scienza: è l’area di Bagnoli, su cui insisteva negli anni Sessanta l’industria siderurgica dell’Ilva, infausto tentativo d’industrializzazione forzata e improvvisata nel Mezzogiorno, oggi imbevuta di metalli pesanti e idrocarburi policiclici aromatici.

Quei suoli – anche quelli su cui sorgeva Città della Scienza – non sono edificabili, perché avvelenati[1]. Il Piano regolatore generale prevede che l’area sia bonificata e convertita a parco verde, con la rimozione della colmata a mare (anch’essa inquinante) e il ripristino della morfologia naturale della costa, in vista della restituzione ai cittadini della balneabilità del mare e della fruibilità della spiaggia[2]. Ma questa visione ecologica e umana, ispirata dall’architetto Antonio Iannello e bandiera della battaglia che tanti intellettuali napoletani hanno combattuto perché l’area di Bagnoli tornasse a vivere, fa orrore a chi vuole ancora “mettere le mani sulla città”, come ha scritto Massimo Ammendola sul sito web “La prima pietra”[3].

Imprenditori, costruttori, intermediari, società appaltatrici, faccendieri, manager, le forze della speculazione, con l’aiuto imprescindibile della manovalanza camorristica, continuano a tenere sotto ricatto Napoli e la sua classe politica, dettando l’agenda dei programmi, delle priorità, delle emergenze. Il destino di Bagnoli vogliono deciderlo loro e ce lo hanno detto con il linguaggio consueto della sopraffazione, che si arroga il diritto di dare e togliere valore alle cose, di costruire e di distruggere.

Il fondatore della Svimez, Pasquale Saraceno, dopo averne studiato il profilo, definì tali forze con una nuova categoria, quella del “blocco sociale”, insediatosi nel tessuto della cosiddetta “società civile” e nei cardini della pubblica amministrazione negli anni Ottanta grazie all’affare della ricostruzione post-terremoto e arricchitosi, negli anni dell’intervento straordinario, con i finanziamenti a fondo perduto per infrastrutture e opere pubbliche, come dighe, depuratori chimici e autostrade. «Quando la modernizzazione è solo apparente – scriveva Saraceno– e non investe le basi economiche, le strutture sociali, i modi di partecipazione alla vita collettiva, con essa possono ben convivere fenomeni di sopraffazione e di asservimento, di indistinzione tra pubblico e privato, di scambio di protezioni e fedeltà personali, le cui radici sembrerebbero invece appartenere a un lontano passato lazzaronesco e feudale. Questa convivenza di modernizzazione apparente e di residui socio-culturali del passato è il terreno comune di coltura dell’assistenzialismo, della corruzione e della piccola e grande criminalità».

Oggi, la priorità dei poteri forti è quella di modificare la legge che impedisce loro di mettere in atto il programma di speculazione immobiliare. Per ricostruire Città della Scienza è necessario modificare il piano regolatore, per il quale essa risulta “abusiva”, come ha fatto notare Ciro Crescentini sul blog “NAPOLIonLINE”[4]. Se vorrete ricostruire Città della Scienza – ci intima il blocco sociale – dovrete acconsentire alle modifiche del piano regolatore e, dunque, anche ai progetti di edificazione sull’intera area di Bagnoli. Ci intimano di rinunciare alla legge, alla ricerca scientifica, alla salubrità dell’ambiente, in una parola, alla modernità e di accontentarci di una falsa, squallida e indegna modernizzazione.

Non saranno i fondi stanziati dall’Unione Europea per la ricostruzione a porre fine al continuo ricatto morale e politico, come non lo furono i 59 mila miliardi di lire della ricostruzione del post-terremoto e le centinaia di miliardi dell’intervento straordinario per lo sviluppo industriale. Quello che serve sono investimenti organici che aiutino le forze ancora sane a  ricostruire il tessuto civile della città[5]. Su di esse la classe politica può confidare per non restare preda, ma dovrà saperle riconoscere in mezzo all’inferno, come scriveva Calvino, e farle durare e dargli spazio.



[1] Vedi B. De Vivo, “La mancata bonifica di Bagnoli e il conflitto di interessi sui controlli”, in Università, ricerca e territorio, La scuola di Pitagora, Napoli 2011, p. 65.

[2] Lo ha recentemente ribadito Carlo Iannello, http://carloiannello.blogspot.it/2013/02/comunicato-di-ricostruzione-democratica.html

[3] http://www.circololaprimapietra.eu/le-mani-sulla-citta-ancora/

[4] http://www.napolionline.org/2013/03/05/cronaca/ma-per-ricostruire-citta-della-scienza-bisogna-modificare-il-piano-regolatore/

[5] Si veda anche l’intervista a Pietro Greco, “Una cattedrale nata nel deserto produttivo”, «Il manifesto», 6 marzo 2013.

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