Luca Illetterati coglie l’occasione delle sue dimissioni dal Nucleo di Valutazione dell’Università di Padova, per tracciare un’analisi di come viene e come verrà plasmata l’università dalle nuove pratiche valutative: «Questo modo di intendere la valutazione, ovvero questa idea per cui è la valutazione a dire come ci dobbiamo comportare, è diventato a mio parere decisivo e palese da quando è stata costituita l’ANVUR, da quando cioè una struttura centrale e verticistica e che non risponde sostanzialmente a nessuno ha standardizzato le pratiche valutative, ha creato sistemi e protocolli di rara complicazione e farraginosità che hanno trasformato e riplasmato la vita degli Atenei (e dei docenti, che passano forse più tempo su moduli e protocolli che sui libri) e ha inciso, a mio parere profondamente e radicalmente, anche sulle stesse pratiche di ricerca.»
Caro rettore, ti scrivo per rassegnare le mie dimissioni dal Nucleo di Valutazione di ateneo.
Faccio parte oramai da molti anni, forse troppi, del NVA; e già questa potrebbe essere di per sé una motivazione valida per questa mia determinazione.
Devo però dirti che non è questa la ragione principale che mi spinge alle dimissioni. A rendere per me urgente una decisione sulla quale, come sanno i miei colleghi del Nucleo, ragiono da un certo tempo, è piuttosto il fatto di essere stato eletto, recentemente, presidente della Società Italiana di Filosofia Teoretica. Come sai la SIFiT è una delle società scientifiche che, forse come nessun’altra società, ha assunto, con il mio pieno e convinto sostegno, posizioni fortemente critiche e di aspra opposizione nei confronti delle politiche valutative dell’ANVUR, pagando anche, per questo, un costo, talora niente affatto marginale. Ora che mi trovo a presiedere la Società e che si apre una nuova impegnativa stagione di valutazioni ho bisogno di sentirmi del tutto libero da incarichi istituzionali che potrebbero rischiare di farmi giocare contemporaneamente ruoli non sempre fra loro coerenti e che, d’altro canto, rischierebbero per questo di mettere in difficoltà o a disagio l’ateneo.
Negli anni in cui ho fatto parte del NVA ho infatti sempre cercato di separare e tenere distinti da una parte il mio impegno critico nei confronti di modelli valutativi che credo stiano per alcuni aspetti minando i capisaldi della libertà di ricerca e dall’altro la mia funzione di membro del NVA, che aveva come suo compito istituzionale non tanto quello di discutere le procedure valutative e la loro ‘ideologia’, ma di fare in modo che l’ateneo le seguisse nel modo più rigoroso e serio possibile.
Questa sorta di duplicità di atteggiamento non è però ora, per me, in queste condizioni, più sostenibile.
Accanto a questo elemento, però, non posso negare che ne agisce anche un altro, sicuramente non secondario, e, per così dire, più strutturale. E cioè le trasformazioni di statuto e le modificazioni di funzione cui è andato incontro negli ultimi anni il NVA.
Se dovessi dirlo in modo frettoloso direi che il NVA è passato in pochi anni da luogo di analisi e considerazione della vita complessa dell’ateneo (e quindi anche luogo di ascolto delle peculiarità e delle differenze di cui si nutre la vita dell’università) a luogo che, del tutto indipendentemente dalla volontà dei suoi componenti, è diventato (ed è destinato sempre più a diventare) una sorta di terminale di operazioni decise perlopiù fuori dall’ateneo e a cui l’ateneo deve adeguarsi e deve attenersi, a volte anche al di là di effettive valutazioni di merito circa la sostanza delle questioni che quelle procedure attivano.
Questo è avvenuto, credo, in seguito ad alcune novità normative e di sistema intervenute negli ultimi tempi. A me sembra che due siano stati soprattutto gli eventi che hanno modificato radicalmente in questi anni il modo d’essere e forse anche la stessa ragion d’essere dei NVA: l’istituzione dell’ANVUR e la cosiddetta Legge Brunetta, che ha attribuito ai Nuclei le funzioni che in altre strutture sono proprie degli OIV, ovvero degli Organismi Interni di Valutazione.
E partirei proprio da quest’ultimo punto.
Che altro è in effetti, si dirà, il NVA se non un organismo interno di valutazione?
Il problema è che agli OIV sono attribuite funzioni e procedure che modificano profondamente la natura della valutazione, trasformandola, lo ripeto, da considerazione e discussione relativa all’organizzazione e alla qualità dell’ateneo, in procedura standardizzata, in cui quella organizzazione e quella qualità vengono tradotte (e dunque ridotte) a performance misurabile. Io non riesco proprio a condividere questo modello valutativo, che trasforma (e in parte ha già trasformato) l’università in qualcosa d’altro da ciò che essa è stata per secoli, senza quasi che ci sia consapevolezza di questo; non riesco davvero a condividere la retorica che con l’idea di rendere il tutto più efficiente ed efficace trasforma sempre più l’università da luogo di produzione critica del sapere in una azienda chiamata a sfornare prodotti adeguati al mercato (siano questi prodotti le pubblicazioni o gli studenti) caratterizzata da un sistema di controlli meccanici. Ma anche indipendentemente dal fatto che io non condivida questo modello di valutazione, c’è in me la chiara consapevolezza di essere del tutto inadeguato per esso, di non avere cioè, dentro a questo modello valutativo, alcuna effettiva e concreta competenza da offrire. Sono peraltro convinto che, così inteso, il lavoro di valutazione dovrà sempre più essere demandato a specifici professionisti della valutazione, ad agenzie specificamente organizzate per questo, a tecnici che andranno a determinare, sulla base delle procedure valutative assunte nella loro ideologica neutralità, e dunque dall’esterno, e cioè non secondo logiche intrinseche alla ricerca, la vita concreta degli Atenei in tutte le sue componenti.
Questo modo di intendere la valutazione non può non portare – e qui tocco un punto che so starti molto a cuore – a un progressivo processo di deresponsabilizzazione degli organi politici, i quali si troveranno sempre più ad agire (o faranno credere di agire sempre più) non in quanto tali, ma in quanto esecutori di precisi dispositivi tecnico-valutativi, i quali assumeranno (e già hanno assunto) impropriamente, ma ineluttabilmente, una funzione direttamente ed eminentemente politica e di governo.
Le cosiddette ‘buone pratiche’ del management aziendale, che costituiscono evidentemente la ratio della normativa valutativa, presentandosi come strumento di miglioramento e di trasparenza, stanno diventando veri e propri strumenti di definizione della vita dentro ai sistemi che esse organizzano. L’uso oramai ad esempio esteso a tutte le sfere della vita dell’ateneo di una logica che lavora in termini di catene di azioni agganciate ad obbiettivi misurabili e verificabili (per cui i corsi di studio, gli insegnamenti, e alla fine anche la ricerca vengono giocoforza pensati e progettati in termini di performance) oltre che avere oramai integralmente burocratizzato la vita dell’università, consente, credo, di toccare con mano la trasformazione dentro la quale ci stiamo muovendo.
Dirai che in fondo la valutazione il NVA l’ha sempre fatta, anche prima della Legge Brunetta. Ma era diverso il modo, erano diverse le procedure, si era convinti di poter in qualche modo governare il meccanismo senza esserne stritolati. Quello che va sempre più emergendo all’interno delle pratiche valutative (e ripeto: indipendentemente dai soggetti che compongono il NVA – e quelli del NVA di Padova sono tutti davvero ottimi) è il dominio delle procedure sulle considerazioni, dei meccanismi sulla possibilità di una ponderazione in grado di tener conto delle variabili umane: degli indicatori sulle persone e sulle cose.
Un ateneo eccellente (parola che ho visto crescere e lievitare in questi anni e che in tutte le sue declinazioni è diventata oramai un mantra nauseante) è oggi quello che risponde positivamente agli indicatori, che ha messo in atto tutte le procedure previste dai propri organismi interni di valutazione, che è adeguato alla misurazione che su di esso le agenzie valutative producono. Che poi quegli indicatori siano giusti, che quelle procedure producano un effettivo miglioramento nella vita delle persone che lavorano in ateneo, che quelle misure dicano davvero qualcosa della qualità organizzativa rischia di essere cosa secondaria se non addirittura irrilevante. Si rischia cioè di entrare nel paradosso, che mi sembra peraltro già effettivo, per cui si fa qualcosa, si decide qualcosa, non tanto o non primariamente perché lo si ritiene giusto e inderogabile, ma perché così vuole e chiede la valutazione.
Permettimi di citare un vecchio monologo di Giorgio Gaber (che peraltro citava cripticamente Adorno, il che rende forse un po’ più accademico il mio riferimento): ‘la libertà – diceva Gaber – è alla portata di tutti, come la chitarra. Ognuno suona come vuole e tutti suonano come vuole la libertà’.
Nel nostro caso si potrebbe dire che l’eccellenza è alla portata di tutti: ognuno pensa e lavora come vuole per raggiungerla e tutti pensano e lavorano come vuole l’eccellenza.
Pensa ad esempio all’introduzione degli insegnamenti di alcune discipline in lingua veicolare o addirittura all’istituzione di interi corsi di studio (magari triennali) che si svolgeranno in inglese. Queste iniziative più che rispondere a bisogni effettivi, rispondono a un bisogno di premialità, a una corsa verso un’eccellenza determinata da parametri valutativi del tutto esterni rispetto alle pratiche concrete dell’insegnamento. Siamo davvero sicuri che gli studenti che seguiranno le attività didattiche in lingua veicolare abbiano la medesima possibilità di approfondimento, di interlocuzione e di spiegazione degli studenti che hanno avuto l’opportunità di seguire quell’insegnamento nella lingua madre del docente? E’ davvero la risposta a un bisogno dello studente e del docente la creazione di questi corsi? Sono state davvero discusse le implicazioni didattiche e formative connesse a questo?
Questo modo di intendere la valutazione, ovvero questa idea per cui è la valutazione a dire come ci dobbiamo comportare, è diventato a mio parere decisivo e palese da quando è stata costituita l’ANVUR, da quando cioè una struttura centrale e verticistica e che non risponde sostanzialmente a nessuno ha standardizzato le pratiche valutative, ha creato sistemi e protocolli di rara complicazione e farraginosità che hanno trasformato e riplasmato la vita degli Atenei (e dei docenti, che passano forse più tempo su moduli e protocolli che sui libri) e ha inciso, a mio parere profondamente e radicalmente, anche sulle stesse pratiche di ricerca.
Devo dirti che uno dei segni secondo me più eloquenti e tristi della crisi in cui versa il mondo intellettuale italiano mi sembra proprio l’acriticità con cui esso ha accolto, accettato e subìto (o la banalità con cui vi ha talvolta reagito, il che mi sembra addirittura peggio) uno dei tentativi più radicali e consapevoli (e in buona parte riuscito) di trasformare e rimodellare dall’esterno, secondo cioè logiche esterne alla ricerca, le pratiche di ricerca, le forme in cui si struttura e si esplica il lavoro di ricerca, il modo in cui si organizzano le comunità scientifiche.
Dico ‘consapevolmente’ perché davvero molte volte ho udito autorevoli membri dell’ANVUR dire che loro sanno benissimo che la valutazione non è una semplice fotografia del reale, ma una sua trasformazione, che loro sanno benissimo che la valutazione modifica ciò che viene valutato e che proprio per questo ritengono che la funzione dell’ANVUR sia decisiva e fondamentale: perché essa è o sarà la leva che consentirà alla ricerca italiana di uscire dalla palude in cui si è cacciata, essa è o sarà il bastone o la carota che consentirà alla ricerca italiana di liberarsi dalle proprie autoreferenzialità (un altro dei mantra che mi sono divenuti sempre più insopportabili), di farsi finalmente ricerca internazionalmente riconosciuta, di raggiungere il livello di eccellenza che deve raggiungere, smascherando le sacche di inefficienza e fannullaggine che (come oramai scrivono i quotidiani un giorno sì e l’altro anche) si annidano corpose dentro gli Atenei.
Ovviamente non è questo il compito di una agenzia di valutazione, ma, contemporaneamente, pretendere una qualche forma di purezza valutativa rischia di essere ancora più ingenuo del (niente affatto ingenuo, a dire il vero) compito salvifico che l’ANVUR si è data, della funzione redentrice rispetto al mondo universitario che l’ANVUR ha preteso e pretende di incarnare.
E così oggi, ad esempio, un dottorando di filosofia (parlo ovviamente per esperienza diretta) a metà del I anno del suo corso si presenta dal proprio tutor con un articolo (ovviamente in inglese) chiedendo informazioni e aiuto per piazzarlo in una rivista di Fascia A (di quelle che l’ANVUR ha deciso in modo a dir poco rocambolesco di considerare di Fascia A), o in una qualche rivista internazionale di quelle che hanno i parametri valutativi adeguati in vista della propria carriera. E il tutor, per quanto consideri sbagliato questo modo di pensare la ricerca, per quanto pensi che la ricerca, quella vera, ha bisogno di tempi lunghi e di nessuna finalizzazione immediata che non sia il desiderio di capire, la fatica di comprendere, lo sforzo di imparare sempre di più e sempre più profondamente, non può non aiutarlo e non può in qualche modo non accondiscendere a questa ‘salamizzazione’ delle pratiche di ricerca, a questo modo di pensare lo studio come immediatamente finalizzato a un prodotto e non può quindi, se non vuole assumersi la responsabilità di creare ricercatori già abortiti, non aiutarlo, non incoraggiarlo dentro questo percorso perverso. E così, ancora, quando vedrà il proprio dottorando eliminare tutto ciò che può risultare apparentemente come marginale allo scopo della ricerca, non immediatamente collocabile rispetto al focus della sua ricerca e traducibile dunque in termini di realizzazione di prodotto, non potrà con forza dirgli che proprio nei margini c’è di solito ciò che dà davvero corpo e spessore a una ricerca, che la ricerca è spesso fatta proprio di ciò che non c’entra, che la vera innovazione nasce da impreviste, inattese e a volte apparentemente strambe ibridazioni. Perché se gli dicesse queste cose delle quali è magari profondamente convinto rischierebbe di fargli del male. Dicendogli ciò che ritiene essere bene rischierebbe di fargli del male.
Io credo che noi si sia di fronte a una modificazione strepitosa e fondamentale dell’ethos stesso della ricerca. E che questa modificazione stia avvenendo come se fosse semplicemente ineluttabile, senza una autentica discussione, culturale e scientifica, di ciò che sta accadendo, sotto l’impeto di una ideologia e di una retorica del miglioramento, del merito, dell’eccellenza, che funziona perché sembra impossibile opporsi ad essa senza apparire dei conservatori che non vogliono migliorare, senza venire immediatamente considerati dei difensori dei privilegi acquisiti, senza essere rappresentati da questi novatores come dei provinciali incapaci di sollevarsi al livello di internazionalità richiesto nell’attuale società globale.
Per tutto questo, rassegno le mie dimissioni dal NVA. Non per ritirarmi da un impegno che mi ha visto coinvolto in questi anni per cercare di rendere il nostro ateneo sempre più all’altezza della situazione, ma perché il mio modo di pensare la ricerca, la didattica, e con esse l’idea di università in cui si fondano, rischiano di non poter essere più adeguati rispetto alle concezioni di ricerca, di didattica e di università veicolate dalle pratiche valutative e dalle agenzie che di esse si occupano.
Gli anni che ho trascorso all’interno del NVA sono stati anni per me importantissimi, anni in cui ho potuto collaborare con persone di altissima qualità professionale e spessore umano. E mi riferisco, nel dire questo, tanto ai colleghi membri del NVA, quanto al personale dell’ufficio di supporto. Sono stati anni in cui ho potuto conoscere, da un punto di vista per molti aspetti privilegiato, un mondo articolato, complesso e non riducibile ad alcuna monolitica uniformità come è quello dell’ateneo, e in particolare di questo nostro, di Padova, leggendolo anche in relazione con gli altri Atenei. Sono stati anni in cui ho potuto sempre muovermi con assoluta libertà e fuori da condizionamenti e in cui ho visto il mio e nostro lavoro sempre da Te seriamente considerato e valorizzato. Sono stati anni in cui ho avuto la fortuna di avere come riferimento un rettore che ha sempre dimostrato attenzione verso un’idea alta di università, un’idea che tu stesso hai visto a volte ridotta e impoverita dalle procedure burocratiche di cui spesso si sono serviti legislatori e valutatori; un rettore che ha avuto il coraggio di denunciare questi pericoli anche quando Padova poteva tutto sommato beneficiarne; che ha anche sempre incoraggiato una discussione critica e partecipata sulle politiche della ricerca e sull’invadenza, in esse, delle pratiche valutative.
Per questo ti prego di accogliere le mie dimissioni non come un atto di disagio nei confronto del mio ateneo o del NVA di cui ho fatto orgogliosamente parte, ma come un gesto che vuole in qualche modo richiamare l’attenzione su una delle trasformazioni più radicali e decisive per la vita degli Atenei di questi e dei prossimi anni.
Per questo, ti chiedo anche di poter rendere pubblica questa mia troppo lunga lettera, nella speranza che essa possa in qualche modo attivare una discussione che coinvolga tutti coloro che avvertono l’urgenza di insistere a pensare su questi temi.
Originariamente pubblicato su il Bo
La lettera è molto bella e credo totalmente condivisibile da tutti.
Il problema è: che fare per l’Università Italiana? Non certamente lasciar fare all’ANVUR, con il suo autoritarismo, decisionismo, burocratismo, assenza assoluta di democrazia e trasparenza.
Il problema dell’Università è la riforma Gelmini, è la creazione dell’ANVUR, ed è un’opposizione blanda, sostanzialmente dispersa e divisa, tra i mille soggetti che operano per/in l’Università: CRUI, MIUR, collegi di direttori di dipartimento, singoli docenti, con incarichi, o senza, negli organi degli Atenei.
Un’opposizione divisa ha poche possibilità di essere ascoltata o di incidere sull’ANVUR. Il presidente dell’ANVUR alle critiche degli oppositori più forti (CRUI, singoli Rettori, Collegio dei Direttori di dipartimento di Roma 1…) risponde alla meno peggio, magnificando le sorti future e progressive dell’Agenzia, più mostrando una bonomia di facciata, che una reale comprensione dei problemi sul tappeto e adeguata soluzione degli stessi.
Che cosa non funziona nell’ANVUR e che cosa occorre fare per porvi rimedio:
-democrazia: non esiste un tavolo ANVUR-Atenei, ove la valutazione, come tipo, metodi, procedure, siano discussi e approvati
-trasparenza: il presidente dell’ANVUR, ultimamente si bea che la SUA-CdS è disponibile agli utenti (come se prima dell’ANVUR fosse diverso), ma all’ANVUR è ignota qualsiasi trasparenza: non si pubblicano i rapporti sui CdS di nuova istituzione, non si pubblicano i rapporti della maggior parte degli atenei finora sottoposti ad accreditamento periodico, non si pubblicano le liste dei valutatori finora impiegati, non si indicano i criteri di scelta di questi valutatori, non si indica il tipo di formazione a cui sono stati sottoposti
-efficienza ed efficacia: non esiste un Riesame per l’ANVUR, né alcun sistema di autovalutazione, miglioramento e accreditamento (verso l’ENQA ad esempio): l’ANVUR è più un’agenzia di Inquisizione o di Dottrina della Fede verso gli Atenei, che un’Agenzia che promuove il miglioramento e lo sviluppo degli Atenei: miglioramento che non può essere che dal basso, seminando le buone pratiche, e non imposto dall’alto: se non fai come ti dico, ti chiudo
-confusione totale: le normative sono elastiche e modificabili come il momento vuole, mediane per l’ASN che possono essere impiegate o no, a discrezione delle commissioni; numerosità dei docenti di riferimento che cambiano secondo il volere del MIUR, e l’ANVUR ovviamente lega l’asino dove MIUR vuole…
-rapporto ANVUR-MIUR: l’ANVUR propone ed il MIUR delibera (DM 47 e 1059/2013 insegnano), la qualità, araba fenice, non si sa chi la fa’, fino allo sproloquio dell’Allegato C al DM 1059/2013 in AQ1 – L’Ateneo stabilisce, dichiara ed effettivamente persegue adeguate politiche volte a realizzare la propria visione della qualità della formazione, ripetuto pari pari per l’AQ6 per la Ricerca (ma siamo sicuri che gli Atenei, tutti, hanno avuto queste benedette visioni?)
-burocratismo: prima di varare delle norme si dovrebbero fare delle simulazioni per verificare gli effetti di queste norme, ma siamo in un mondo al di la dei bizantini (beati i bizantini…) in cui io comando, tu ubbidisci e se ti comando di fare le stalle per gli asini volanti, tu devi farle con tutte le specifiche che io ti do: se poi nessuno ha visto gli asini volanti, non importa io (ANVUR) credo fortemente negli asini volanti… Se qualcuno sa spiegare come un’Assicurazione di Qualità casareccia tramite Requisiti strampalati possa assicurare una Qualità non definita (se non tramite le famose visioni degli Atenei…) ce lo spieghi, e sarà sentitamente ringraziato.
-doppioni NVA e PQ (Presidio di Qualità): non si capisce chi fa che cosa… ma sono ambedue necessari?
Il problema alla fin fine non è tanto l’ANVUR, ma il MIUR, ed il potere politico. La legge Gelmini va abolita, ha fatto solo sfracelli e quando è servito, è stata stravolta (vedi governo Monti, per un anno di proroga aggiuntivo ai Rettori inadempienti della stessa legge).
Adesso si rivuole rimettere mano alle Università, dichiarazioni del Ministro Giannini, aumentando l’autonomia degli Atenei: feudi per sei anni se va bene di feudatari illuminati, se va male di feudatari autoritari: l’Ateneo sono Io, ma il Re Sole era tutta’altra cosa…
La lettera è bella ed appare anche sul sito
http://www.unipd.it/ilbo/
della rivista online “Il Bo” di UNIPD.
Non condivido però la parte riguardante dove pubblicare. Io cerco di pubblicare i miei articoli scientifici (settore bibliometrico) nelle riviste che danno maggiore visibilità: Nature, Science, Physical Review Letters, Physical Review A, eccetera. Che sono anche quelle dove il controllo dei referee è piu’ severo.
[…] testo integrale della sua lettera al rettore è qui. Va letto e […]
“Devo dirti che uno dei segni secondo me più eloquenti e tristi della crisi in cui versa il mondo intellettuale italiano mi sembra proprio l’acriticità con cui esso ha accolto, accettato e subìto (o la banalità con cui vi ha talvolta reagito, il che mi sembra addirittura peggio) uno dei tentativi più radicali e consapevoli (e in buona parte riuscito) di trasformare e rimodellare dall’esterno, secondo cioè logiche esterne alla ricerca, le pratiche di ricerca, le forme in cui si struttura e si esplica il lavoro di ricerca, il modo in cui si organizzano le comunità scientifiche.”
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Ecco, è tutto qui.
Quello a cui ho assistito in questi anni, da ricercatrice, è stata l’ignavia del corpo docente.
Nessuno, o davvero pochi, si è mai ribellato a tutto ciò, allo stesso modo in cui non c’è stata ribellione al blocco degli scatti, magari pensando di tutelare e *proteggere* chi sarebbe stato più penalizzato, ossia i *giovani*, di cui ci si riempie tanto la bocca sempre.
Quello che ho visto è stato il tentativo di chi aveva gli indici bibliometrici alti (o l’equivalente in campo umanistico), di avvantaggiarsi della situazione, in maniera a volte non meno egoistica o autoreferenziale di altri. Non importava poi se questi indici bibliometrici alti magari fossero il risultato di ricerche alla moda, dell’incessante lavoro di public relations internazionale, o magari anche dell’aver trascurato didattica e attività noiose che altri si erano sciroppati. Naturalmente, chi diceva o dice queste cose è “contro la valutazione” o mediocre. Non sostiene un’idea diversa di ricerca, di università o anche di semplice gestione della propria vita che non sia una produzione perenne di articoli tagliati a fette di salame.
Quello che anche ho visto è stata la corsa a pubblicare, da parte di chi scriveva poco, e a citare/citarsi addosso, per adeguarsi a questa situazione e quindi cercare di acquisire potere e posti. Una corsa che ha prodotto anche spazzatura scientifica di cui non si sentiva il bisogno, ma che ha dato i suoi frutti.
E non parlo di pratiche isolate.
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Condivido profondamente, sotto ogni aspetto, questo intervento. Riflessivo, pieno di sostanza e anche umano.
Condivido una visione della scienza come gusto anche lento della scoperta, con tutti i suoi aspetti di imprevedibilità e insuccesso.
Insuccesso, parola ormai divenuta inaccettabile.
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Avrei voluto vedere molti più Luca Illetterati in questi anni, che con la schiena dritta avessero avuto il coraggio di non approfittare delle situazioni o invece adattarvisi per trarne vantaggio.
Oggi, nonostante mesi di post di denuncia e una certa fiducia residua, devo dire che invece non ci credo più.
Sul blocco degli scatti ci sono stati 16 mila e 200 docenti universitari (me compreso) che hanno protestato con lettere al Governo.
Iniziativa coordinata da Carlo Vincenzo Ferraro del Politecnico di Torino.
http://www.universitaericerca.it/index.php?option=com_content&view=article&id=272:comunicato-stampa
Ho letto per prima i post e poi l’articolo e il nome dell’autore … quando ho letto nel post di Lilla “Avrei voluto vedere molti più Luca Illetterati in questi anni, che con la schiena dritta avessero avuto il coraggio di non approfittare delle situazioni o invece adattarvisi per trarne vantaggio.” ho pensato ma perchè Lilla ce l’ha con Luca Salasnich e perchè gli preferisce gli illetterati? … Poi ho notato il nome dell’autore e la I maiuscola e ho capito che forse non si riferiva a Salasnisch dicendogli che gli preferiva gli illetterati, forse :-)
Cara Lilla, questa frase che hai scritta:
“Non sostiene un’idea diversa di ricerca, di università o anche di semplice gestione della propria vita che non sia una produzione perenne di articoli tagliati a fette di salame.”
è semplicemente perfetta: descrive esattamente quello che sta succedendo. La trasformazione del ricercatore in una “copisteria”.
Io non ce la faccio. Perché non è questo il nostro lavoro principale.
Il nostro lavoro è contribuire all’avanzamento della conoscenza ed al riversamento (scusate la parola) dei risultati nella didattica.
Conosco molto bene l’iniziativa. Alla fine i firmatari sono stati circa diecimila. Parliamo di uno strutturato su cinque, compresi RTI e RTD. Uno su cinque.
Non ho sentito una parola da CRUI o CUN. Nessun coordinamento efficace di forze sindacali. Le forze di polizia hanno chiesto le dimissioni del Ministro. Non abbiamo la stessa forza contrattuale? Può darsi, ma il problema è peggiore: non ci sono state dimostrazioni di forza e in molti casi c’è stato il silenzio.
Ho visto tanti video di tanti convegni, con gente incravattata o in tailleur che parlava come ai convegni scientifici. Nessuno che abbia sbattuto il pugno sul tavolo, menzionando che c’è chi nella propria carriera perderà quanto un appartamento, o chi non avrà neanche un futuro. Ho visto una CRUI chiedere accise sulla benzina per i precari. Non commento. O dire che dopo essersi adeguati (appunto) alla giusta (giusta) valutazione, ora va bene aspettarsi qualcosa in cambio.
No, non ci credo più, mi spiace. E non rifarei questa scelta potendo tornare indietro.
Lilla: ” E non rifarei questa scelta potendo tornare indietro.”. Quale scelta? Firmare la petizione o fare la carriera universitaria?
In ogni caso, non facciamoci demoralizzare! Uno dei nostri compiti è lottare, anche in silenzio, per migliorare la società. Mai demordere. Incazzarsi, buttare tutto all’aria, ma alla fine mirare a migliorare il sistema. SEMPRE!
Ernest, a parte le risate che mi sono fatta sul tuo commento più sopra :-) , tornando seria, il mio motivo di impegno quotidiano è la responsabilità verso i miei studenti, i miei tesisti, il mio dottorando e il mio assegnista. Verso le loro vite.
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Poi tengo pure famiglia e quell’appartamento che Tremonti, Monti, e via via fino a Padoan-Madia-Renzi, ognuno col suo ruolo e ovviamente il suo lauto stipendio e futuro lauto vitalizio (che non si toccano), si sono presi nell’arco della mia vita, l’hanno tolto ai miei figli più che a me.
Per questo sopporto sempre meno di vedere gente incravattata che parla spesso del nulla: si capisce?
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@Emanuele: grazie.
A Lilla: si capisce, come si era già capito che eri incavolata (parlo con una signora e cerco di mettere, come si dice, la lingua nel pulito). Mi sono solo permesso di dire che la cravatta a quei signori bisogna stringerla un po’ e non farsi scoraggiare. Si è capito ora?
ciao
P, cioè Ernest
Come si fa a non buttare all’aria il tavolo?
“Un ateneo eccellente … è oggi quello che risponde positivamente agli indicatori, che ha messo in atto tutte le procedure previste dai propri organismi interni di valutazione, che è adeguato alla misurazione che su di esso le agenzie valutative producono. Che poi quegli indicatori siano giusti, che quelle procedure producano un effettivo miglioramento nella vita delle persone che lavorano in ateneo, che quelle misure dicano davvero qualcosa della qualità organizzativa rischia di essere cosa secondaria se non addirittura irrilevante. Si rischia cioè di entrare nel paradosso, che mi sembra peraltro già effettivo, per cui si fa qualcosa, si decide qualcosa, non tanto o non primariamente perché lo si ritiene giusto e inderogabile, ma perché così vuole e chiede la valutazione.”
Come si fa a non buttare all’aria il tavolo difronte a un delitto del genere? Invece quello che vedo è una corsa a riempire moduli nel migliore dei modi, in modo da essere additato come esempio positivo. Great direbbero i miei amici anglofoni, i prof trasformati in scribacchini.
Non credo che i docenti siano stati acritici verso le varie riforme, credo viceversa che esista un potere di mercato asimmetrico aggravato dalla crisi economica e dal conseguente taglio del FFO. Sempre più atenei mostrano difficoltà, quando non debiti e defict, dovuti anche a pratiche non sempre chiare di assunzioni di docenti e più spesso di personale aministrativo (la numerosità di quest’ultimo in alcuni casi è così imbarazzante che meriterebbe qualche intervento esterno). Tuttavia se le due chiavi di lettura sono l’efficienza e l’efficacia, allora non ci siamo da nessun punto di vista.
L’efficacia dovrebbe essere valutatuta in relazione ai costi e benefici dei provvedimenti. Guardando solo ai risultati recenti per sempio alla ASN 2012 c’è da rimenere fulminati.
Si sono spesi circa 200 mln, non so quanto tempo (ma il costo opportunità per l’ANVUR non conta, dimenticavo) esaminati decine di migliaia di candidati, redatti altrettanti verbali per assumere dopo concorso qualche decina di docenti. Vi sembra che ci sia un qualsiasi rapporto che renda legittimo parlare di efficacia?
L’efficienza è riferita, almeno così ho sempre saputo, a Pareto e questo dovrebbe applicarsi anche all’ANVUR che almeno nei costi finanziati dal ministero impone un esborso di 10 mln annui, di cui 1.281.000 per sette membri del Consiglio Direttivo. Ora davvero c’è un’efficianza paretiana nel caso dell’ANVUR? Sinceramente non credo.
Premesso che ritengo che una valutazione sia necessaria e giusta e che questa non possa che rifarsi a esperienze internazionali condivise, pur nei limiti riconosciuti, credo però che la situazione italiana non sia nenche di second best, credo che sia semplicemete assurda.
Non ha senso cercare di imitare le Agenzie Indipendenti per esempio su Concorrenza, Comunicazioni, Trasporti ecc., se non altro perchè queste incidono sulla realtà economica decidendo sanzioni, spesso molto onerose, nel caso di abusi e violazioni, e non producendo oggetti come la SUA che nessuno capisce a cosa servano. Credo che parlando di efficienza la valutazione possa essere allocata a costi decisamente inferiori e ricondotta, una volta sottratta alle maglie di un’Agenzia che deve comunque giustificare e legittimare la sua esistenza, a quelle che sono le motivazioni originarie.
Dopo che per la terza volta perdo il commento per una ragione che non capisco, pian piano sono arrivata a quello che per me è il punto. Pur essendo d’accordo che la lettera e’ ben scritta ed è condivisibile totalmente, perché scriverla e divulgarla adesso che non si vede via di ritorno né ripensamento da parte di Miur, Anvur ecc., anzi. Non sarebbe stato più utile farlo prima? Anni fa? La mia prima ed unica esperienza di RAV di CdL del 2007 mi aveva insegnato che si andava verso la burocratizzazione inutile, prolissa, opaca, se non dannosa. L’anno dopo era peggio e così di seguito. Fine del discorso.
Sembra che siano in arrivo nelle univ. italiane gli ispettori dell’ANVUR per valutare la didattica.
:-O
Entreranno in aula all’improvviso ed in primis verificheranno se quello che sta facende lezione è il professore titolare del corso o un suo sostituto. E cosi chiuderanno tutti i corsi di laurea dove ci sono dei medici.
;-)
Poi faranno uscire il docente ed interrogheranno gli studenti per sapere se sono stati trattati bene e se il programma dell’insegnamento prevede interazioni con le realtà produttive del territorio. E cosi chiuderanno anche tutti gli altri corsi di laurea.
;-)
A quel punto le università vaticane, dove come noto i docenti sono pagati benissimo, sostituiranno completamente le università italiane. Ma io sono previdente ed ho già tirato fuori i documenti che certificano i miei anni dalle Suore Dorotee e con i gesuiti dell’Antonianum, e forse un corso su come si fanno le tabelle me lo faranno fare…
Spero.
:-(
Attenzione che anche le università vaticane hanno la loro ANVUR che si chiama “AVEPRO” (no, non è uno scherzo). Ne abbiamo parlato qui:
https://www.roars.it/lanvur-e-i-corsi-di-studio-di-nuova-attivazione/
Bisogna però dire che, a occhio e croce (ops), sembrano meno sgarrupati dei loro colleghi italiani. Magari ce la caviamo facendo un segno della croce ed un paternoster al’inizio delle lezioni. Il che sarebbe comunque meno costoso di una SUA RD.
https://www.youtube.com/watch?v=TNEhF6QfFR8
AVEPRO è dal 2014 Full member ENQA. Mentre ANVUR paga la quota associativa per “Affiliate”…
E vabbè, quando si hanno dei santi in paradiso …
Il neopresidente della Società Italiana di Filosofia Teoretica dovrebbe capire come mai un docente a contratto di “filosofia teoretica” di UNIVR, esperto di “filosofia del web”, faccia degli accostamenti su internet tra una candidata a Presidente di Regione e donne che svolgono un’altra attività.
Gli strumenti di comunicazione sono forse nuovi, ma i contenuti mi sembrano i soliti. E non ci vedo niente di “filosofico” e niente di “teoretico”.
Lo capisce di sicuro perché chiunque lo può capire grazie a una ricerca in internet della durata di mezzo minuto, che rivela come il contrattista di Teoretica in questione sia noto come “lo spin doctor di matteo salvini”. Insomma, un nuovo significativo esponente della categoria che ha il suo più prestigioso rappresentante nientemeno che in rondolino, noto per alcuni anni come “lo spin doctor di daniela santanché”, ma ora strafolgorato sulla via di rignano; del resto, assolutamente pour cause, visto che il colà venuto alla luce sta realizzando punto per punto a mo’ di caterpillar ciò che il politico più ammirato dalla santanché ha semplicemente sbandierato come suo programma per 20 anni.
Semplici fuochi di campagna elettorale italica anni dieci, dalla qualità perfettamente commisurata al livello della nostra classe politica (e degli affini attorno ad essa rotanti) degli ultimi 25 anni.
Personalmente non risiedo in Veneto, ma credo che, se ci abitassi, sarei indotto ad andare a votare per uno qualsiasi dei tre candidati solo dalla minaccia armata di uno dell’Isis, cioè di qualcuno che, quando brandisce kalashnikov, notoriamente lo fa con la più inesorabile serietà
Il fatto in se è noto. Dal filosofo mi aspetto una analisi dei motivi profondi che hanno portato al fatto in se.
A mio avviso, ma non sono filosofo (anche se quest’anno insegno anche alla laurea in filosofia), i motivi profondi sono da ricercarsi nella attuale formazione dei laureati e addottorati in filosofia. Sempre a mio avviso, sarebbe auspicabile una riduzione del buffo mix tra internet e filosofia continentale, ed un forte aumento dello studio della filosofia analitica e delle scienze naturali.
E’ certamente desolante che un dottore di ricerca e contrattista di Filosofia teoretica si batta in prima linea a fianco dell’orda dei devoti del carroccio, il cui livello di elaborazione concettuale e di argomentazione è quello di un alunno non particolarmente sveglio di quinta elementare. Esattamente come sarebbe desolante se si battesse a favore della candidata del partito in questo caso rivale, il quale ha stravolto-stuprato-capovolto la tradizione, non priva di elementi apprezzabili anche sul piano culturale, da cui racconta di provenire.
Può darsi che ci siano responsabilità di chi forma i laureati e i dottori di ricerca in Filosofia; confesso che non conosco a sufficienza la situazione attuale per potermi esprimere sulla questione. E può benissimo darsi che l’immersione in internet non giovi a molti laureati e docenti di filosofia, benché, navigando, mi capiti di leggere abbastanza spesso interventi dignitosi, seri e stimolanti di tanti altri (potrei fare vari nomi, compreso quello di Illetterati stesso).
Di sicuro sono inesistenti le responsabilità della filosofia continentale, la cui tradizione è altissima, la più alta, e i cui due “prodotti” novecenteschi di gran lunga più engagés politicamente (Marcuse e Sartre) facevano propaganda (fare politica è anche, se non soprattutto, fare propaganda) con una classe nemmeno immaginabile dallo “spin doctor” di matteo salvini e affini. Bisogna semmai prendere atto del fatto decisivo che domina ormai un imbarbarimento lato sensu culturale tale che, sebbene i due suddetti filosofi siano morti rispettivamente nel 1979 e nel 1980, da allora sembra sia trascorsa un’intera era geologica
Caro Ciro,
l’imbarbarimento è totale, onnipervasivo. L’Università e la Scuola hanno perso completamente il senso dello studio e della cultura. I capi controllano che le idee più idiote e distruttive siano applicate. Al ministero interessa che si vendano i computer. Aspettano l’ondata dei pensionamenti per chiudere i corsi “non utili”, ci fanno sbranare per due briciole e la chiamano competizione meritocratica.
Che dire di più?