Un emendamento all’articolo 12 (12.102) del decreto Art Bonus (d.l. 83/2014), ora convertito in legge (l. 106/2014), ha escluso i materiali archivistici e bibliografici dalla liberalizzazione delle riproduzioni di beni culturali per finalità di studio. Questa improvvisa retromarcia sarebbe stata sollecitata dalla Direzione generale per le biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore. La prima motivazione: le società concessionarie di servizi di riproduzione forniscono infatti l’unica entrata di questi istituti non proveniente dal finanziamento annuale erogato dallo Stato. La seconda motivazione: la prescrizione che la riproduzione debba essere attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene avrebbe escluso ex se l’applicazione al patrimonio cartaceo. Nell’articolo, mostriamo che entrambe le motivazioni hanno un fondamento alquanto debole.

Come si è avuto modo di esporre in questa sede, un emendamento all’articolo 12 (12.102) del decreto Art Bonus (d.l. 83/2014), ora convertito in legge (l. 106/2014), ha escluso i materiali archivistici e bibliografici dalla liberalizzazione delle riproduzioni di beni culturali per finalità di studio.

Le ragioni di questa improvvisa retromarcia sono state in seguito spiegate da alcuni dei firmatari: l’emendamento, secondo quanto risposto dai deputati interpellati, sarebbe stato sollecitato dalla Direzione generale per le biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore.

La prima motivazione addotta risulterebbe di ordine economico: le società concessionarie di servizi di riproduzione forniscono infatti l’unica entrata di questi istituti non proveniente dal finanziamento annuale erogato dallo Stato.

La Direzione si sarebbe inoltre appellata a ragioni di tutela, facendo leva su un’interpretazione del testo normativo ripresa da alcuni degli istituti meno propensi ad applicare il decreto. In particolare, la prescrizione che la riproduzione debba essere attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene a loro dire ne avrebbe escluso ex se l’applicazione al patrimonio cartaceo. A differenza di dipinti e sculture, volumi e carte d’archivio presuppongono infatti la necessità di essere sfogliati, potendo rendere per assurdo necessaria la presenza fisica costante di un archivista o di un bibliotecario per girare le pagine del documento in riproduzione.

La posizione è stata poi precisata dalla Direzione generale per gli Archivi in una seduta del Consiglio Superiore per i Beni culturali, aggiungendo a queste ragioni la potenziale inutilizzabilità di fotografie di documenti realizzate dagli studiosi a causa della loro scarsa leggibilità, paventando inoltre il rischio di furti durante le riprese.

Queste dunque le basi su cui l’emendamento è stato accolto, presentato e approvato alla Camera e poi confermato al Senato, dove l’urgenza di convertire in legge il decreto prima della scadenza ha di fatto escluso la possibilità di qualsiasi intervento.

Si lasci al personale giudizio del lettore ogni valutazione sulla pertinenza e serietà delle argomentazioni sopra esposte. Sconcertante, semmai, è come si riscontrino tentativi di creare consenso attorno a tale operato – anche un intervento su AIB notizie –, nonostante qualche firmatario abbia ammesso di non essere stato a conoscenza del contenuto o, come Manuela Ghizzoni, lo abbia definito tout court «uno scivolone» o «divieto erroneamente imposto». Non ci si può tuttavia astenere dal commentare alcune di tali argomentazioni, se non altro perché il tema può avere dei risvolti tecnici forse di non immediata comprensione, perlomeno da parte dello stesso legislatore.

Innanzitutto la prima ragione addotta appare in palese contraddizione con il parere espresso dalla Commissione Bilancio della Camera, che aveva escluso effetti apprezzabili rispetto ai flussi di entrate attesi. Più grave è però forse che si dichiari che alcune biblioteche e archivi abbiano inteso negli ultimi anni i servizi di riproduzione affidati in outsourcing – ma ricordiamo comunque come si tratti di casi eccezionali: nella maggior parte degli archivi esistono centri di riproduzione interni – come cespite per i loro bilanci, anche nel caso delle riproduzioni per attività di ricerca senza fine di lucro su cui interveniva il decreto. Questa sarebbe semmai l’ammissione di come si sia violato perlomeno lo spirito se non anche il dettato dello stesso Codice dei beni culturali, dove è prescritto che «Nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste da privati per uso personale o per motivi di studio […]. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente» (l. 42/2004, art. 108, comma 3). Semmai, sarebbe da valutare il risparmio derivante dall’eliminazione delle pratiche amministrative previste sia per l’autorizzazione alle riprese con mezzi propri sia per la concessione alla pubblicazione delle riproduzioni che, attraverso una lettura restrittiva della norma, è prevedibile torni a essere richiesta. Se non altro, sopprimendo tutta questa trafila burocratica, il personale qui impegnato avrebbe potuto essere destinato a più proficue attività di tutela e valorizzazione.

Le ragioni di tutela addotte appaiono invece del tutto pretestuose, dal momento che i documenti di cui si esclude la riproduzione per evitare il contatto fisico sono gli stessi che vengono dati normalmente in consultazione agli studiosi e da questi sfogliati e maneggiati, con quella stessa cura sulla quale gli addetti delle sale studio sono tenuti a vigilare, che si fotografi o meno. Basterebbe poi un minimo di buon senso per intendere che il “contatto diretto” indicato dal decreto riguarda i mezzi di riproduzione (ovvero si intendono escludere strumenti quali scanner o fotocopiatori o tecniche di ricalco diretto, quale il frottage), e non certo il rapporto tra studioso e documento. Non a caso, lo stesso Consiglio superiore dei Beni culturali, visto il diffondersi di una interpretazione così limitativa, nella seduta del 15 luglioaveva ritenuto doveroso intervenire con una mozione ad hoc indirizzata al Ministro e alla Direzione competente, paradossalmente senza aver ancora appreso dell’avvenuta approvazione, sei giorni prima, dell’emendamento restrittivo.

Allo stato attuale l’unica via d’uscita è forse rappresentata da un ordine del giorno rivolto al Governo e approvato in Senato (G 12.100), dove si richiama la necessità di sostenere iniziative di digitalizzazione «di testi antichi e rari» e «di tutti quei beni bibliografici e archivistici non sottoposti alla legge sul diritto d’autore e alla legge sulla privacy» e «a prevedere l’introduzione di apposite misure amministrative e organizzative, nei limiti della disponibilità di bilancio, dirette a favorire, facilitare e semplificare la pubblica fruizione di questi beni, specialmente da parte di studiosi ed studenti».

La prima proposta è sicuramente meritevole, anche se per molti campi di ricerca è sicuramente destinata a rimanere un’utopia: nessun progetto di questo tipo potrà infatti mai soddisfare tutte le esigenze, nemmeno a prezzo di trascurare qualsiasi rapporto costi/benefici (parliamo di decine di chilometri di scaffali di documenti solamente per ciascun Archivio di Stato…). Quanto alla garanzia di tutela dei diritti d’autore, questa è già presente nel Codice dei beni culturali (d.l. 42/2004, art. 107, comma 1), peraltro con i limiti previsti dalla stessa legge sul diritto d’autore (l. 633/1941, art. 70 commi 1 e 1 bis), come pure sono già armonizzate le disposizioni per quanto attiene alla tutela della privacy. Si potrebbe semmai intravedere una qualche speranza nel secondo richiamo, qualora questo venga accolto come invito a elaborare un ulteriore intervento che in qualche modo riproponga l’intento originario del decreto. Infine, il richiamo a un eventuale piano amministrativo e organizzativo riduce drasticamente gli spazi di manovra, mentre sarebbe piuttosto auspicabile un intervento normativo risoluto e volto a rimuovere l’emendamento all’articolo 12 del decreto.

Il caso che qui si è proposto si rivela indicatore di un problema più generale che riguarda il processo riforma del MIBACT. Negli interventi come quelli sopra illustrati attorno all’articolo 12 del decreto Art Bonus, la posizione sostenuta da alcuni vertici ministeriali pare infatti riflettere un atteggiamento conservatore che esclude la «partecipazione di più attori» ai meccanismi di valorizzazione e dunque di tutela dei Beni culturali, ribadendo la centralità, se non l’esclusività, dell’autorità statale. Se non si instaurerà un rapporto collaborativo con gli studiosi, c’è il rischio che l’amministrazione sarà percepita non come un alleato capace di garantire un servizio a beneficio di tutti – e a garanzia di tutela dei beni culturali –, ma come uno dei tanti ostacoli alla ricerca. Anche per questo è urgente che il legislatore ritorni sui suoi passi e giunga nei fatti a una soluzione che rilanci il principio della libera riproducibilità dei beni culturali per motivi di studio (su questo si veda anche M. Modolo, Il sogno infranto delle libere riproduzioni, «Il Giornale dell’Arte», 345, settembre 2014 e gli interventi in un sito a questo tema dedicato). Esso rientra infatti pienamente nel quadro di quella condivisione di obiettivi, strategie e metodi tra amministrazione dello Stato e tutti quei cittadini e istituzioni pubbliche, locali o periferiche, che intendono valorizzare attraverso la libera ricerca il patrimonio storico e artistico, secondo l’articolo 9 della Costituzione, al fine di giungere a una migliore coscienza collettiva della nostra identità culturale.

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