Antonio Gurrado ci riprova sul Foglio. Dopo l’articolo della fine dello scorso anno “La scuola che Renzi non vede ‚ Contro il mito del posto pubblico. Inchiesta sui (folli) criteri di assunzione nelle università italiane.” , di cui si era già occupato ROARS, adesso riprende l’attacco contro il valore legale del titolo di studio. Difficile non chiedersi se si tratta di una ripresa di interesse personale o se si sia accollato il ruolo di sherpa per una nuova campagna autunnale su questo tema così caro ai vertici confindustriali e quindi al Governo.
Sempre sul Foglio, il 16/9, Gurrado firma un nuovo articolo “Abolire il valore legale del titolo di studio deve essere una battaglia di sinistra” in cui ritorna sulla questione. In verità non sembra che abbia trovato nuovi argomenti a sostegno della tesi, al di là di una non meglio identificata necessità di “riformare l’ istruzione con la dinamite”, senza peraltro neanche accennare a scrivere cosa per lui non funziona nel sistema attuale, e perché. Insomma, di analisi seria non c’è traccia. L’ articolo si limita a riportare alcuni fatti (la derivazione del “valore legale” dalla richiesta di un titolo di studio per l’ esercizio delle professioni regolamentate o per l’ accesso a determinate posizioni della Pubblica Amministrazione), l’esistenza di uno studio dettagliato commissionato dal Senato e il risultato della consultazione on-line promossa dal Governo Monti, finita con una nettissima vittoria di pareri contrari all’ abolizione, e omettendo altre informazioni. Per esempio il documento conclusivo del lungo lavoro di studio ed audizioni della Commissione Cultura del Senato, nelle cui conclusioni veniva detto inequivocabilmente che al momento non è adottabile l’abolizione. E questo sulla base dell’ analisi dei fatti, e non di paraocchi ideologici: il punto 10 delle conclusioni riportava:
“Queste considerazioni portano a ritenere che adottare oggi nel nostro Paese l’abolizione del valore legale della laurea presenterebbe, a fronte dei benefici conseguenti alla liberalizzazione del sistema universitario e alla piena autonomia delle università, vari cospicui aspetti negativi, complessivamente prevalenti [sottolineatura non nel testo]: le indubbie difficoltà della realizzazione legislativa, una tempistica non congrua rispetto al recentissimo avvio dell’ANVUR, una non favorevole accettazione da parte di sindacati e ordini professionali, ma soprattutto da parte degli studenti e delle famiglie, una probabile penalizzazione delle università territorialmente svantaggiate, la probabile insorgenza di maggiori difficoltà in ordine alla fruizione di una formazione universitaria di alta qualità per i giovani residenti nelle regioni del Mezzogiorno, un probabile aumento dei costi universitari a carico degli studenti, una maggiore difficoltà di garantire il diritto allo studio degli studenti capaci e meritevoli ma sprovvisti di mezzi. A quest’ultimo riguardo si ribadisce la fondamentale importanza dell’obiettivo costituzionale di garantire a tutti nostri giovani pari opportunità nell’accesso anche ai più alti livelli della formazione [anche questa sottolineatura non presente nel testo originale]: la qualità non può essere privilegio di pochi. Questo principio di uguaglianza ispira profondamente la nostra Costituzione ed è il presupposto di base del metodo meritocratico.”
Sempre la Commissione del Senato concludeva con un’ apertura all’ abolizione, *ma solo dopo la garanzia di alcuni prerequisiti*, tra cui “mettere a disposizione maggiori risorse per la realizzazione piena del diritto allo studio”.
Sarebbe bello sapere se secondo Gurrado è cambiato qualcosa da quando sono state scritte quelle conclusioni ad oggi.
Di tutto questo approfondimento nell’ articolo di Gurrado non c’è traccia. Invece vengono copi-incollate senza nessuna analisi frasi come quella di Andrea Gavosto (Fondazione Agnelli) secondo cui ” il valore legale contrasta col riconoscimento delle competenze dei singoli”. Affermazione decisamente debole nel voler forzare una alternativa con esclusione tra garanzia dell’ aver seguito una formazione curricolare i cui requisiti minimi sono garantiti dallo Stato e le competenze ed abilità individuali. Ci si potrebbe chiedere quanto tempo fa Gavosto, peraltro anche membro della Commissione Cultura di Confindustria, abbia partecipato ad un concorso o una selezione che richiedesse un titolo di studio per giustificare affermazioni del genere. Altrettanto non dimostrata resta anche l’affermazione di Gurrado secondo cui la UE riterrebbe poco qualificante la struttura del 3+2 “perché richiede ciclo unico per le professioni riconosciute uniformemente”. Sarebbe bello poter avere l’indicazione di un documento ufficiale della UE che giustifichi tale affermazione.
La conclusione dell’articolo di Gurrado è poi un crescendo imbarazzante. I partecipanti al sondaggio on-line del Governo sul titolo di studio vengono classificati molto gentilmente come “popolo bue”, probabilmente perché non allineati sulle idee di Gurrado e Confindustria. Il governo di sinistra viene esortato a “non dare niente per insindacabile e mettere in discussione il valore legale senza i tentennamenti dell’ ultimo ventennio”. Per culminare con la domanda “se sia ancora utile oggi l’obbligo scolastico”. Domanda che lascia sbigottiti, conoscendo i problemi di deficit di formazione a tutti i livelli nel nostro Paese (dall’essere fanalino di coda tra i paesi OCSE per percentuale di laureati nella fascia di popolazione attiva, alla scarsissima presenza di laureati nelle posizioni dirigenziali dell’ industria, al problema dell’ evasione dell’ obbligo scolastico, all’ analfabetismo di ritorno).
Sarà interessante vedere quali altri opinionisti seguiranno l’ esempio di Gurrado nelle prossime settimane.
L’ultima frase è stata scritta il giorno dopo l’uscita del Foglio. Detto fatto. All’articolo di Gurrado, risponde il controcanto di Michele Magno su Italia Oggi del 18/9. Altro articolo umorale e superficiale che di nuovo non prende nemmeno in considerazione fatti e approfondimenti, riutilizzando i soliti luoghi comuni ( “…battaglia contro nemici forti ed agguerriti: gruppi studenteschi [sic!], lobby dei docenti universitari [sic!], forze politiche di entrambi gli schieramenti.”, “… i nostri laureati sarebbero inservibili in un’azienda”, citando su questo Salvatore Rossi, direttore generale di Bankitalia, evidentemente esperto di aziende e laureati ed esegeta di una visione americanofila dal punto di vista universitario. E quindi l’ immancabile citazione da Einaudi. Peccato che anche Michele Magno sia così occupato a scrivere sul valore legale del titolo di studio da non aver tempo per documentarsi su gli approfondimenti recenti!
Oggidì cercherei di non ingigantire codeste manifestazioni di pensiero, pubblicate sul “Foglio” o su “Italia Oggi”. Qualche risultato, sul fronte della comprensione del concetto, lo abbiamo ottenuto, come attestano tra l’altro proprio i documenti di provenienza parlamentare citati anche in questo post.
Attualmente il valore legale dei titoli di studio non mi sembra che funzioni molto bene. Si certifica che il titolo conseguito nell’Università X è uguale a quella Y o Z anche se non è sempre vero. Le Università così non hanno interesse a chiamare i migliori professori perché il riscontro nel mercato non c’è. Del resto lo vediamo quotidianamente: stiamo chiamando soltanto gli idonei interni, senza alcun tipo di selezione, né possibilità di cambiamento di sede. Mi direte che questo non dipende dal valore legale dei titoli di studio. Verissimo, ma il sistema, nel suo complesso, non favorisce una competizione virtuosa tra gli atenei.
Credo si debba affrontare serenamente questo tema, senza pregiudizi da nessuna parte.
Nessuno certifica che “il titolo conseguito nell’Università X è uguale a quella Y o Z”. Chi lo facesse dovrebbe essere visitato da un dottore, ancor prima di essere imputato di falso ideologico.
Nell’ordinamento giuridico italiano non vi è nulla di ciò.
Un primo passo sarebbe quello di documentarsi prima di ripetere frasi fatte, mostrando di essere palesemente a digiuno del dibattito nazionale e internazionale. Per esempio si può cominciare con la lettura di questo articolo:
https://www.roars.it/riflessioni-sullabolizione-del-valore-legale-del-titolo-di-studio/
Un’altra lettura vivamente consigliata è il dossier pubblicato nel 2011 dall’Ufficio Studi del Senato:
http://www.senato.it/documenti/repository/dossier/studi/2011/Dossier_280.pdf
Scusami Giuseppe, mi sembra un po’ aggressivo come atteggiamento. Non ripeto frasi fatte, né mi verrebbe in mente di dirlo di te o di qualcun altro. Sicuramente non sono un esperto, ma qualcosa ho letto.
Posso avere idee diverse dalle tue ma non per questo debbo essere accusato di ripetere frasi fatte o di “essere palesemente a digiuno del dibattito” sul valore legale.
Ho sempre apprezzato Roars quale forum dove discutere liberamente e serenamente del nostro lavoro all’università. Spero che continui così.
Paolo Alvazzi del Frate – Roma Tre Giurisprudenza
Mi dispiace, ma non se ne può più di ascoltare il ritornello della “grande magia”: se aboliamo il valore legale (ma chi ne chiede l’abolizione sarebbe capace di darne una definizione?) si darebbe libero corso alla panacea dell’autoregolazione del mercato. La classica “soluzione semplice di problemi complessi”, buona per tutti i talk show. Basta documentarsi un po’ per rendersi conto che chi è competente dà poco credito a soluzioni semplicistiche. Ai testi che ho già citato, si possono aggiungere queste considerazioni di Giovanni Cordini, a cui sono acclusi due brevi articoli di Sabino Cassese e Giuseppe Dalla Torre:
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https://www.roars.it/wp-content/uploads/2011/10/valore-legale.pdf
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In particolare, Cordini osserva che negli elenchi confidenziali del Consiglio d’Europa sono più di 900 le istituzioni non riconosciute che già adesso”spacciano” titoli di studio fasulli. La necessità di qualche forma di accreditamento che garantisca gli studenti dagli abusi è quanto mai attuale come testimoniato dai seguenti due comunicati dell’UNESCO e del Consiglio d’Europa:
– http://portal.unesco.org/education/en/ev.php-URL_ID=48787&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html
– http://www.coe.int/t/dg4/highereducation/Recognition/Recognition%20disclaimer_EN.asp#TopOfPage
Ma se Lei, caro Professor Alvazzi del Frate, ripete frasi fatte e si mostra palesemente digiuno del dibattito, cos’altro si dovrebbe ribattere? Non possiamo fare una trattazione accademica in una replica di poche righe.
Cosa esattamente sarebbe questa abolizione, nessuno lo sa e probabilmente non è realizzabile (né desiderabile: p.es., facciamo fare il medico a chi non è laureato in medicina? Pensiamo di cavarcela con un esame di Stato dieci volte più lungo di adesso? E dieci volte più controllato?).
Almeno due effetti sicuri ci sarebbero:
1) il moltiplicarsi delle truffe (dato che le persone si aspettano che i titoli di studio abbiano “qualche” valore),
2) il via libera al peggiore clientelismo e leghismo (concorsi riservati solo a chi e’ laureato in … a Bergamo, Isernia, e cosi’ via).
La regolazione del mercato ovviamente non c’e’ perché i titoli non si vendono e comprano. Nel privato si possono non chiedere, ma visto che le aziende li chiedono per partecipare alle selezioni, vuol dire che gli servono (se non altro a ridurre il numero dei perditempo). Nel pubblico, i titoli ovviamente non danno diritto a un posto, ma limitano solo la platea dei partecipanti ai concorsi, in modi evidentemente comodi e spesso gia’ abbastanza larghi. Poi si vincono non col titolo, ma con gli esami.
La Bocconi vorrebbe avere concorsi riservati solo ai suoi laureati? E perché? E Draghi non lo facciamo partecipare, perché ha studiato in un’universita’ pubblica? Se i laureati delle universita’ che si ritengono migliori sono bravi, si troveranno i migliori posti, senza bisogno dell’aiutino di tagliare fuori i concorrenti (meglio se meridionali, naturalmente).
Cialtronerie e stupide autopubblicita’, come al solito.
Sono slogan ideologici vuoti, ma purtroppo di grande presa. Anzi non e’ ancora stato citato Einaudi che in genere e’ must in queste discussioni.
Non sono, e neppure voglio esserlo, esperto in merito.
Credo però, da uomo della strada che il problema del valore legale del titolo di studio sia un tema fondamentale per il futuro del sistema universitario e, forse, per la tenuta dell’intero paese.
Le conseguenze nefaste sarebbero evidenti, per chiunque sia in buona fede. E richiamarsi alle capacità di autoregolamentazione del mercato è una follia, peraltro antistorica. Esistono società di tutti i tipi, che operano nei più svariati settori, con sede a Londra, Amsterdam, New York e manovalanza in paesi asiatici. Questa modalità di utilizzo della manovalanza, per quanto mi è dato sapere, sta diventando ormai comune anche nelle professioni intellettuali.
I commenti di Paolo A., che ha il sacrosanto diritto di dissentire, dimostrano però un grosso limite in ambito accademico. E non solo perché poi vorrei vedere chi e come deciderà che l’Università X è migliore di quella Y o Z. Ma soprattutto perché vede le principali ricadute nel sistema universitario. Proprio di questa miopia ci si dovrebbe preoccupare.
Dell’incapacità di guardare al mondo esterno e a quel che accade ai giovani laureati; peraltro sempre meno, con sempre meno immatricolazioni, in controtendenza ai sistemi esteri che tanto spesso si prendono ad esempio.
Inoltre, il sistema formativo sarebbe ben più efficace e credibile (anche indipendentemente dal valore legale del titolo di studio) se si procedesse a consolidare, rafforzare ed uniformare le proposte didattiche. Ad esempio, un ingegnere civile dovrebbe avere pressoché la stessa preparazione da Bergamo a Palermo (come accadeva non molti anni addietro).
Al contrario, ovunque nell’intero paese, si propongono corsi improbabili, con definizioni improbabili, ed ancor più improbabili applicazioni professionali; con scusa, altrettanto improbabile, di inseguire le esigenze di mercato e di ottemperare alle richieste dei territori.
Insomma, i fautori dell’abolizione del valore legale del titolo di studio sono all’opera, concretamente, da ormai moltissimi anni.
@ Marco: il richiamo a quanto avviene in altri paesi e’ giustissimo. Basta leggere il dossier preparato per la Commissione Cultura del Senato per avere una prima panoramica. Tuttavia questo anfrebbe fatto anche per il discorso di uniformare le proposte didattiche. Di fatto in Italia, nonostante
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@ Marco: il richiamo a quanto avviene in altri paesi e’ giustissimo. Basta leggere il dossier preparato per la Commissione Cultura del Senato per averne una prima panoramica. Tuttavia questo andrebbe fatto anche per il discorso di uniformare le proposte didattiche. Di fatto in Italia, nonostante quello che qualcuno potrebbe pensare, non c’e’, e in moltissimi casi non e’ formalmente possibile, una deregulation completa. In alcuni casi ci sono stati, al momento di ridisegnare i corsi di laurea post-riforma (DM 509+270), alcune “derive” ma buona parte degli errori piu’ grossolani direi che sono rientrati.
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Di fatto sono gli “steccati” introdotti a livello della definizione delle classi di laurea, che fungono da minimo comun denominatore garantito dallo Stato per la validita’ di una formazione terziaria sotto una certa etichetta. E il sistema ha gia’ tutti i meccanismi per monitorare e correggere eventuali disfunzioni. Poi, come in tutti i campi, se non si utilizzano gli strumenti “di sicurezza” inutile dare la colpa ad altri. Ma anche inutile sperare che fughe in avanti come la famosa “abolizione del valore legale” possano funzionare.