Agnese Tumicelli, Gianmarco Ruvolo, Luca Pistore (Rappresentanti degli Studenti UNITN): «Il nostro sistema non premia il merito ma la competizione» Quarto Convegno Roars, Trento, 24-24 febbraio 2023 – Tavola rotonda: COSA «MERITANO» LA SCUOLA E L’UNIVERSITÀ ITALIANA
Agnese Tumicelli
Rappresentante degli studenti UNITN nel Comitato paritetico per il diritto allo studio e la valorizzazione del merito
Meritocrazia. Il governo dei migliori. Questo concetto è stato elaborato per la prima volta nel 1958 dal filosofo inglese Michael Young, nel saggio satirico-distopico The rise of the meritocracy. In questo testo la meritocrazia viene assunta a valore fondativo di una società in cui alle persone vengono attribuiti ricchezze e poteri sulla base del loro QI. La società viene divisa in classi: da una parte gli intelligenti, quelli che ce la fanno, dall’altra tutti gli altri.
Oggi, la meritocrazia è socialmente accettata in quanto sembra realizzare l’utopia dell’uguaglianza: non contano i soldi o la famiglia di appartenenza, tutti ce la possono fare, basta solo lavorare sodo. Gli intelligenti sono tali non per qualche aiuto esterno, ma solo grazie ai propri sforzi e al proprio impegno. Da questo si deduce che ognuno è responsabile dei propri successi, che dipendono solo ed esclusivamente dal proprio comportamento.
Apparentemente questa sembra la soluzione a tutti i problemi della nostra società, ma non si deve dimenticare di considerare l’altra faccia della medaglia. Ad ogni “vincitore” corrisponde infatti un “perdente”, uno che non ce la fa, uno che non arriva. Il meritevole si sente autorizzato a guardarlo dall’alto al basso, il non-meritevole incolpa sé stesso dei propri fallimenti e pensa che per lui il sistema non funzioni. Questa responsabilizzazione individuale portata all’esasperazione crea dunque una cesura netta tra chi merita e chi non merita: i primi hanno diritto a tutto, gli ultimi non sono degni di nulla.
Nonostante tutte le sue contraddizioni, la retorica meritocratica investe ormai tanto l’ambito lavorativo, quanto quello politico e, soprattutto, quello universitario. Qui, proprio tra queste mura, la meritocrazia accompagna lo studente in ogni tappa del proprio percorso accademico. Noi studenti ci confrontiamo periodicamente con ansia e stress solo perché sentiamo che è nostro dovere inseguire standard quasi impossibili da raggiungere, veicolati da un sistema che ci fa sentire sbagliati se veniamo bocciati, se accettiamo un voto troppo basso o se andiamo fuoricorso. La strumentalizzazione che giornali e TG fanno delle storie di percorsi accademici da record ci fa sprofondare sempre più nel senso di colpa, fa sentire inadatti e fuori posto.
Il sistema meritocratico scarica sullo studente tutte le colpe di un’università concepita in modo profondamente sbagliato, in cui i dogmi dell’individualismo e della competizione eclissano uno dei lati più belli della vita accademica: il saper fare comunità e il saper crescere insieme.
Lo stesso Young, in un’intervista al Guardian del 2001, si rammaricava del percorso interpretativo che ha caratterizzato il termine da lui coniato e sottolineava come le nuove generazioni di studenti percepiscano l’istruzione solo come luogo di formazione professionale dove apprendere le skills e dimentichino uno dei ruoli fondamentali di un sistema educativo, quello di educare alla comune appartenenza ad una società politica.
Questo sistema universitario è malato e nonostante tutto non vogliamo rendercene conto. Ignoriamo il problema fino a quando questo diventa più grande di noi, schiacciandoci e portandoci a compiere gesti estremi. Nel 2022 sono stati accertati quattro casi di suicidi di giovani universitari, cui si è recentemente aggiunta la morte della studentessa dell’Università IULM di Milano, solo diciannovenne. Questa è solo la punta di un iceberg fatto di molti piccoli gesti che fanno trapelare il malessere delle persone più “deboli”, che faticano a reggere il peso della competizione.
Oggi è diventato normale sentirsi schiacciati dal peso delle aspettative che il mondo ci scarica addosso; pensare che di fronte di un percorso accademico diverso da quello che ci si aspettava non si meriti più di vivere è un eventualità che può prospettarsi a molti.
Il problema di fondo sta, però, nel fatto che non è vero che la meritocrazia premia chi ce la fa con le proprie forze. Non è vero che se lavori duramente puoi arrivare ovunque. I “vincitori” sono molto spesso persone che, per la loro condizione economica o per altri privilegi di nascita, partono già un gradino più in alto rispetto agli altri.
Un report della Banca d’Italia che prende in considerazione il periodo 1993-2016 evidenzia come negli anni ci sia stato un aumento dell’importanza delle condizioni della famiglia di origine rispetto alla ricchezza dei figli. La correlazione tra i redditi dei figli e dei genitori, simboleggiata da un indice che varia da -1 a +1, era di 0,188 nel 1993 e nel tempo è aumentata fino ad assestarsi allo 0,240 del 2016. Questo dimostra che, come succedeva un tempo, per il successo sul lavoro dei figli ha sempre più importanza quanto hanno studiato e guadagnato i loro genitori, altro che l’impegno del singolo.
Gli italiani hanno sempre meno fiducia nella possibilità di migliorare le proprie condizioni economiche studiando o lavorando. L’ascensore sociale è in panne da tempo e sta precipitando verso il basso, come dimostra uno studio dell’Ocse del 2018, secondo cui in Italia potrebbero essere necessarie addirittura 5 generazioni perché una persona nata in una famiglia a basso reddito possa raggiungere un reddito medio in linea con quello dei suoi coetanei che vivono nei Paesi più industrializzati del mondo.
Significativo è anche il fatto che, secondo il report “Fragitalia” di Legacoop-Ipsos, tra chi si considera appartenente al ceto medio (27% degli intervistati), il 35% pensa che i figli potranno migliorare la propria posizione rispetto alla famiglia di appartenenza, il 53% che la manterranno invariata e il 12% che scenderanno più in basso nella scala sociale. Nel ceto popolare (rappresentato da ben il 66% degli intervistati), il 37% ha aspettative di miglioramento per i figli e il 40% pensa che potranno mantenere la stessa posizione, mentre il 23% (quasi il doppio rispetto agli appartenenti al ceto medio) ritiene che la peggioreranno.
Per diventare metro di giustizia il merito dovrebbe essere inserito in un sistema che valorizzi ed incentivi l’uguaglianza delle opportunità: solo se tutti partissimo effettivamente dallo stesso livello oggettivo sarebbe possibile misurare oggettivamente i meriti di ognuno.
Questo principio viene affermato dalla stessa Costituzione, che all’art. 34, co. 3, sancisce che “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Questa disposizione indica la necessità di abbattere gli ostacoli, in primis economici, che oggi molto spesso impediscono agli studenti appartenenti alla fascia popolare di raggiungere i risultati che altre persone raggiungono e che, a parità di condizioni, sarebbero per loro più che accessibili. Inutile puntualizzare come questo precetto costituzionale sia oggetto di una applicazione assai scarsa.
Mal sopportando questa inerzia che puzza di indifferenza e di opportunismo, noi vogliamo credere che sia possibile arrivare al giorno in cui la meritocrazia funzionerà davvero, quando sarà possibile per tutti raggiungere i propri scopi prescindendo da ogni fattore economico. Per fare questo è necessario un ripensamento dell’intero sistema universitario, che ci impegneremo a promuovere in ogni sede e ogniqualvolta ne avremo l’opportunità. Perché, in fin dei conti, noi studenti (e qui è davvero il caso di usare questa parola) meritiamo di più.
GIANMARCO RUVOLO
Spesso, a volte anche troppo, sentiamo la parola “meritocrazia” o “merito” in riferimento a qualcuno che straordinariamente ha raggiunto un obiettivo, ha ottenuto qualcosa, prima degli altri. Ma è veramente questo il concetto? La “meritocrazia” nel dizionario viene descritta come una società utopica dove la distribuzione dei beni e delle ricompense dipende esclusivamente dal merito di ciascuno, dalle sue capacità naturali e dall’impegno profuso. Guardiamo alla meritocrazia intendendo, nella visione teorica, una parte del “sistema merito” inteso come base per una società che riconosce e da importanza all’achievement più che all’ascription. Un sistema società in cui rileva, estremizzando il concetto, l’azione compiuta e non più la provenienza e l’estrazione sociale (come invece era nelle società di stampo aristocratico).
Posta in questi termini, la meritocrazia appare lo strumento più giusto, il mezzo migliore per raggiungere il fine di una società umana giusta ed equa, che consideri tutti come elementi di una catena necessaria per la sopravvivenza della catena stessa. Ed il modello che vi ho appena proposto ovviamente si estende a tutti gli ambiti della società ed infatti, in tempi recenti, si è cominciato a parlare anche di “meritocrazia dell’istruzione” (o meglio education based meritocracy secondo l’espressione utilizzata da Goldthorpe nel ’97) per indicare un sistema in cui le posizioni sociali sono dettate dal livello di istruzione e la scuola viene considerata l’istituzione che individua ed attribuisce i meriti alle persone.
La realtà purtroppo è ben distante da questo modello; secondo alcuni studiosi, infatti, la relazione che si crea fra merito e titolo di studio è in realtà una semplice trasformazione del privilegio, che già era presente per una classe sociale, in un merito più ampiamente riconosciuto. La scuola stessa quindi diventa un canale per perpetrare le ingiustizie sociali, servendo come mezzo alla classe dominante per dimostrare a quella dominata la legittimità della dominazione stessa. Inoltre non tutti gli individui percepiscono la legittimità del modello meritocratico allo stesso modo, molto dipende da come si è vissuto il proprio percorso di studi, dalle percezioni dei singoli e quindi un modello che basa la differenziazione degli individui rispetto al merito scolastico e al titolo conseguito ha tutti i crismi per rivelarsi inefficace.
Spesso poi non ci accorgiamo neanche di quanto siamo lontani dal modello iniziale, anche solo dall’averlo implementato correttamente. Ebbene un’associazione no profit supportata da un equipe dell’Università Cattolica di Milano ha messo a punto il “meritometro”, uno strumento definito come “il primo indicatore di sintesi, misurazione e comparazione del merito” che si basa su sette pilastri, tra cui libertà, pari opportunità e qualità del sistema educativo. Il ranking del 2018 mostra l’Italia all’ultimo posto in Europa con 23,57 punti, a 43 dalla prima, la Finlandia; indicando un sistema meritocratico stagnante, con valori fermi al 2015. Il sistema educativo aveva registrato dei dati ben inferiori alle medie europee rispetto al tasso di abbandono e all’istruzione terziaria; dati che rendono difficoltoso l’accesso dei giovani al mondo del lavoro e non favoriscono l’attrattività per i talenti.
I dati più aggiornati poi, quelli del 2021, ci dimostrano che non siamo usciti dallo stato paludoso e vedono l’Italia a 24,56 punti. In miglioramento rispetto al passato. Ma comunque ultima, sempre ultima, ancor più distanziata (11 punti) dalla Spagna penultima e con ben 43 punti di distacco dalla prima. Quello che più sconvolge però, è che i “pilastri” che peggiorano, sono proprio quelli della libertà, delle pari opportunità e della qualità dell’istruzione. È il sesto anno consecutivo che il nostro paese finisce in ultima posizione.
Come detto questo, si tratta solo di un indicatore, ma ci serve; mi serve per attuare una riflessione più ampia, più larga. Se lo consideriamo, tutti i nostri modelli si basano su una questione sbagliata; non si considera una base di partenza reale e si prendono in considerazione solo i soggetti singoli, non il loro background culturale e sociale, fingendo che tutti siano uguali. E nel momento in cui vengono approntati strumenti, posti in essere dal sistema stesso, che dovrebbero eliminare le diseguaglianze di base, questi si rivelano insufficienti o errati. Si applica un sistema di valutazione schematizzato che dovrebbe contenere tutti, quando invece ogni soggetto è diverso e questo crea già da subito una distinzione tra gli individui non certo basata sul merito, ma tra chi rientra in quei canoni generali e chi no, in una distinzione basata solo sulle semplici caratteristiche personali.
Questo induce gli individui che non si riconoscono nell’istituzione, che non si riconoscono nel modello meritocratico proposto, a sentirsi sbagliati, a considerarsi un fallimento e questo li spinge a volte a non continuare negli studi (il tasso di abbandono nel 2020 ha raggiunto il 13.1%, contando circa 543 mila ragazzi), altre volte a mentire sui risultati raggiunti pur di non sembrare una delusione, ed altre volte, troppe volte, a commettere gesti estremi.
Sono a questo tavolo oggi, con i miei colleghi, come rappresentante degli studenti dell’Università di Trento, un ateneo di eccellenza, all’avanguardia e che si è affermato come migliore per molti anni ed in molti campi. Ed in questa sede sento ed ho la responsabilità di dire qualcosa in merito a tutto ciò che è stato detto in questi giorni ed in merito a tutto ciò che vivono gli studenti e le studentesse da anni; i dati che vi ho riportato qui indicano una situazione catastrofica, è vero, ma dopotutto letti così sono solo dati, sono solo numeri. Dietro però c’è il vero fattore che dovrebbe contare, quello umano.
I fatti di cronaca descrivono un quadro spaventoso della situazione degli studenti, ci danno l’immagine del sistema fallimentare che abbiamo costruito. Il bel modello meritocratico iniziale non esiste più, forse non è mai esistito, ed ora siamo intrappolati in un sistema stagnante e malsano, che però continuano a raccontarci come “funzionante”.
Da un lato ci viene offerta l’immagine degli studenti eccellenti, laureati in anticipo con lode e ringraziamenti, mediante grandi articoli e titoli in prima pagina. Dall’altrz, ragazzi della stessa età si tolgono la vita, perché schiacciati proprio da quella pressione che ricevono dai coetanei, dai parenti, dai professori, dai giornali, dagli esponenti della politica. Tutto questo è inaccettabile. Ed è inaccettabile ad ogni livello, è inaccettabile che un sistema ti guidi fin da piccolo a dipendere da una valutazione numerica, facendola passare come l’unico mezzo per essere un elemento attivo della società, un elemento – appunto – meritevole. È inaccettabile che l’università sia subordinata al raggiungimento di determinati requisiti di qualità che prendono in considerazione solo i risultati “di merito” e non il benessere, in tutte le sfaccettature, dei suoi componenti. È inaccettabile un sistema che ti spinge a prevaricare sugli altri perché devi essere il migliore, perché la competizione fa uscire solo chi merita, obbedendo a una sorta di legge del più forte. È inaccettabile perché in uno Stato che considera, ai sensi dell’art. 3 della sua Costituzione, tutti i cittadini liberi ed eguali e che si propone di rimuovere ogni ostacolo che limiti di fatto questa eguaglianza, non si può morire perché la pressione ha finito per schiacciarti.
Ogni competizione, ogni abbandono, ogni morte sono, e qui mi permetto di usare il termine, fallimenti del nostro Paese, della nostra società e del nostro sistema. Il merito in termini teorici è un sistema corretto e condivisibile, equo e giusto. Tuttavia il nostro sistema non premia il merito, ma la competizione, e “la competizione non seleziona i migliori, solo i meno sensibili”. (Paolo Crepet – Non siamo capaci di ascoltarli)
LUCA PISTORE
Gil student non dicono che si puo’ conquistare il merito accodandosi ad un prof. Il portaborse? Anche, di lunghissima tradizione e storie.
Ma come possono sottrarsi alla competizione con ogni mezzo, quando chi fra i prof. emerge e’ un predestinato, pronto a stringere alleanze e far favori per vincere!!! Se si vuol far dell’universita’ un luogo di formazione, bisogna riformarsi. Tutti.