La meritocrazia: stella polare o fata Morgana? Credo che una risposta possa nascere da una seconda domanda: oggi, dopo 13 anni di meritocrazia estrema – intesa proprio come sport estremo – l’università è migliore o peggiore di quella di 15-20 anni fa? Abbiamo prodotto un’università in cui esiste la capacità di criticare il sistema e di avere indipendenza scientifica nell’età più produttiva, tra i 30 e 40 anni? Il paradigma che ci ha guidato in questi 13 anni sono stati sostanzialmente la valutazione e la competizione. La competizione ha un fallout, una ricaduta negativa che a volte si si trascura, che è quello di disgregare la comunità su cui si esercita. Come hanno detto tutti, c’è un vincitore ma ci sono i vinti. La risposta di Rete 29 aprile è che dobbiamo recuperare il valore della cooperazione. Noi un’idea ce l’abbiamo e lo diciamo da anni: è il ruolo unico della docenza. Il ruolo unico e il senso di appartenenza diventerebbero l’antidoto anche per le storture del sistema. Sostituiremmo l’autorità che deriva dall’organizzazione in fasce che c’è ora, che limita inevitabilmente la democrazia negli organi, con l’autorevolezza.

Gianfranco Bocchinfuso (Rete 29 Aprile): «dopo 13 anni di meritocrazia estrema, l’università è migliore o peggiore?» Quarto Convegno Roars, Trento 24-25 febbraio 2023, Tavola rotonda: COSA «MERITANO» LA SCUOLA E L’UNIVERSITÀ ITALIANA

Lasciatemi iniziare col ringraziare Roars. Non solo per questa giornata, per essere qui con voi oggi, ma per quello che avete fatto in 10 anni, perché avete fatto un lavoro eccezionale. Lo diceva bene prima Maria Chiara: avete dato dignità alla docenza universitaria. Quando andiamo in giro a raccontare il metodo scientifico, la prima cosa che si fa è richiamare la sentenza contro Galileo Galilei, che dice che la sua scienza è sbagliata perché contraria alle Sacre Scritture. Quindi, noi nasciamo dal contrastare il principio di autorità. Rispetto alla valutazione, c’era il rischio che ce ne dimenticassimo. Voi avete guardato dentro alla scatola di questi indici che sembravano essere destinati ad essere accettati da tutti per quello che erano, senza possibilità di essere analizzati e criticati. Quindi, molto volentieri ricambio questa reciproca stima.

All’inizio di questa tavola rotonda ci chiedevi se la meritocrazia fosse una stella polare o una fata Morgana. Difficile aggiungere altro alle tante argomentazioni che ci sono venute dalla filosofa, dal sociologo, dagli economisti e anche dagli studenti. Io voglio aggiungere una prospettiva soggettiva, forse non tanto scientifica, forse non assonante con il mio ruolo di scienziato. Credo che una risposta possa nascere da una seconda domanda: oggi, dopo 13 anni di meritocrazia estrema – intesa proprio come sport estremo – l’università è migliore o peggiore di quella di 15-20 anni fa?

Per rispondere a questa domanda, lo ripeto, mi pongo in una prospettiva soggettiva. Non è il modo migliore di procedere ma forse può essere efficace. Io ho finito il dottorato a 30 anni, dopo aver assolto anche i servizi di leva, e a 32 anni ero ricercatore a tempo indeterminato. A 34 anni, nel 2004 – così sapete anche la mia età – ho fatto quasi in modo prototipale la prima rinuncia collettiva alla didattica che si è organizzata in Italia nell’Università di Tor Vergata, contro il provvedimento che poi confluì in quella che viene ricordato come la legge Moratti, che metteva fuori ruolo i ricercatori. È un’altra cosa, precedente alla riforma Gelmini, che vale la pena ricordare. A 34 anni, io ero abbastanza indipendente scientificamente e avevo la possibilità di rinunciare: tenevo dei corsi fondamentali e mi sono fermato.

Oggi, questa cosa può succedere o non può succedere? Abbiamo prodotto un’università in cui esiste la capacità di criticare il sistema e di avere indipendenza scientifica nell’età più produttiva – perché sappiamo che le rivoluzioni spessissimo si fanno in quella fascia di età tra i 30 e 40 anni – un’università di questo tipo l’abbiamo prodotta oppure no? Ecco, questa è una domanda che io onestamente rivolgerei anche ad Antonio Uricchio e Alessandra Celletti, con la quale peraltro mi unisce una conoscenza personale, essendo una mia collega a Tor Vergata e nella stessa macroarea e anche con interessi scientifici in qualche modo convergenti. E allora lo chiedo a voi, ma non come presidente e vicepresidente dell’Anvur, perché come presidente e vicepresidente dell’Anvur non potete che dare una risposta. Anche troppo critici, forse, siete stati, ma, più o meno, non potete che difendere il lavoro che fate. Io lo chiedo alla docente Alessandra e al professor Uricchio: siete convinti che queste politiche abbiano migliorato l’università? Poi forse mi risponderete.

Ma quindici anni fa andava tutto bene? No, non è che andasse tutto bene, quindici anni fa, perché altrimenti si cade in un altro rischio. C’erano dei problemi. Certamente esasperati da tanta stampa che doveva preparare una riforma draconiana, ma insomma i problemi c’erano. Si avevano due possibilità, in effetti: spingere verso una verticalizzazione del processo decisionale, verso un verticismo e in questo la meritocrazia è stata strumento essenziale. Oppure, si sarebbero potuti aumentare gli spazi di democrazia negli atenei. Anche quella sarebbe stata una risposta ai tanti problemi delle baronie. Si è optato per la prima scelta. Oggi, a 15 anni di distanza, dobbiamo necessariamente capire se quella scelta è stata giusta o sbagliata ed eventualmente tornare indietro.

Perché, vedete, la nostra risposta, la risposta di Rete 29 aprile è proprio che bisognerebbe forzare un cambio di paradigma. È emerso già in molti degli altri interventi: il paradigma che ci ha guidato in questi 13 anni sono stati sostanzialmente la valutazione e la competizione. Noi pensiamo che dobbiamo recuperare il valore della cooperazione. Dobbiamo cominciare a cambiare le  parole chiave e a farlo in modo costante e incessante, perché diventi un mantra e quindi possa tradursi in fatto concreto.

Tra l’altro, lasciatemi dire, è simpatico che lo si faccia qui a Trento. Io sono calabrese, quindi Trento era un altro pianeta, dal punto di vista geografico. La prima volta l’ho sentito per il Concilio di Trento. Che nasce come risposta, forse sbagliata, non sono storico non voglio entrare in questi dettagli. Ma è curioso che nasca come risposta al Calvinismo. Alcuni economisti che provano a studiare la relazione che c’è tra i sistemi sociali e  le religioni, questo paradigma della competizione lo riconducono proprio lì, alla predestinazione. Mi piace, in particolare, trovarmi qui a Trento a rimarcare questa questa esigenza di una rivoluzione epocale.

E tra l’altro è molto bello che ci siano stati prima di me gli studenti, i dottorandi, che hanno una lucidità incredibile. Allora, Giuseppe ci ha ringraziati perché senza di noi non ci sarebbe stato Roars. Non so se questo sia vero, ma mi piace pensare che lo sia, nel dubbio accetto questa interpretazione. Ma noi un tributo lo dobbiamo a nostra volta. E a chi lo dobbiamo? Agli studenti dell’Onda che molto lucidamente, anche due anni prima di noi, avevano molto chiaro quello che stava succedendo. Quindi è molto importante, e ringrazio Roars anche per questo, averli invitati qui e le loro analisi lucidissime dimostrano l’utilità di questo modo di agire

Ma veniamo un po’ un po’ alle cose che volevo volevo aggiungere io. Cambio di paradigma, cooperazione versus competizione: come si può implementare? Noi un’idea ce l’abbiamo e lo diciamo da anni: è il ruolo unico della docenza. Noi abbiamo fatto due convegni sul ruolo unico, è veramente molto difficile qui sintetizzare le ricadute positive che ci sarebbero. Però quello che su cui vorrei puntare è il fatto che la competizione ha un fallout, una ricaduta negativa che a volte si si trascura, che è quello di disgregare la comunità su cui si esercita. Come hanno detto tutti, c’è un vincitore ma ci sono i vinti. Questo disgregamento della comunità accademica io lo vedo anche analizzando gli ultimi 20 anni della mia personale esperienza. Lo sento, ed è un fallout negativo che non dobbiamo dimenticare. È molto importante sentirsi parte di una comunità. Non solo perché ci si lavora meglio. A parte i problemi degli studenti, dinamiche analoghe, forse meno meno esasperate perché riguardano persone adulte, ci sono anche nel mondo dei docenti. Le persone che restano indietro nella valutazione vengono isolate nei dipartimenti, entrano in crisi, lavorano male.

Dobbiamo recuperare dei meccanismi che rendano coese le comunità, perché, se io penso di essere parte soltanto del mio gruppo di ricerca, mi occupo solo del mio gruppo di ricerca. E, guardate, il ruolo unico e il senso di appartenenza diventerebbero l’antidoto anche per le storture del sistema. Perché, questo lo posso chiedere a Uricchio, ad Alessandra, ma anche a tutti voi: quante volte abbiamo avuto contezza che un provvedimento era proprio fatto male? Però, riguardava noi? Se riguardava un collega, riguardava qualcosa di lontano, perché non non ci sentiamo parte di quella comunità. Se mio figlio o mio padre fanno qualcosa di sbagliato, io glielo dico. Se in un dipartimento vedo che un collega fa qualcosa di sbagliato, se non è parte integrante del mio gruppo di ricerca, non mi riguarda, perché mi sento un po’ esterno a quella comunità. Oramai sono focalizzato sul mio gruppo. Essere parte di una comunità è un antidoto anche contro questo tipo di di storture e quindi è importante recuperare questo senso di appartenenza.

Lasciatemi soltanto citare altre due parole chiave che sarebbero conseguenti al ruolo unico. Sostituiremmo l’autorità che deriva dall’organizzazione in fasce che c’è ora, che limita inevitabilmente la democrazia negli organi, con l’autorevolezza, che non è dare più soldi come diceva Valditara. Non è dare più soldi alle persone. L’autorevolezza è il riconoscimento della comunità scientifica che, in un consesso di pari, è ancora in grado di riconoscere i soggetti che hanno particolare propensione ad affrontare particolari problemi. E qui mi fermo. Grazie.

 

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1 commento

  1. Grazie. Fa bene sentire queste parole. Questi anni sono stati pesantissimi, con una competizione scorretta, che raramente ha avuto come risultato il premio del merito. Parlare di cooperazione veniva accolto con un sorrisetto di sufficienza. Sono contenta che se ne parli e in modo così convinto.

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